I° CORSO PER TUTOR
Progetto Cucciolo
23, 24 e 25 MAGGIO 1997
PROGRAMMA
VENERDI' 23 MAGGIO
PRANZO
SABATO 24 MAGGIO
PRANZO
DOMENICA 25 MAGGIO
VENERDI' 23 MAGGIO
Dott. Fantechi: Ringrazio tutti per aver partecipato, spero che faremo un buon lavoro insieme. Prima di cominciare ufficialmente il primo corso di Progetto Cucciolo, volevo ringraziare personalmente padre Spagnuolo che ci ospita qui nell'Istituto Antoniano dei Padri Rogazionisti. Padre, mi farebbe piacere se lei potesse rivolgere un saluto ai ragazzi.
Padre
Spagnuolo: E' una sorpresa per me vedere qui presenti così tanti
ragazzi; quando si iniziò ad organizzare il convegno si pensava a 30-40
ragazzi, ma stamani siete almeno 90, questo mi fa molto piacere e spero che
questo corso sia seguito in futuro da altri. Ringrazio il Dott. Fantechi per la
fiducia e l'affetto dimostrato e faccio a lui e agli altri organizzatori i
complimenti per aver avuto la magnifica idea di portare avanti questo progetto.
Approfitto della situazione per parlarvi di questo stesso Istituto che io stesso
dirigo. L'Istituto, che venne acquistato nel 1948/49, è una delle più antiche
ville della zona, una volta comprendeva tutto il Poggio Gherardo. La villa
risale al '300 e con il tempo, sono tante le famiglie che si sono succedute.
L'ultima famiglia nobile fu quella dei Gherardo che diedero lo stemma alla
villa. Attualmente noi padri rogazionisti, viviamo qui e diamo cura e affetto a
bambini e ragazzi con disagi e difficoltà sforzandoci di sostenerli fino a
quando non siano capaci di gestire la loro vita.
Mi auguro che voi possiate trascorrere qui al meglio i tre giorni di
corso e mi impegno affinché le cose procedano nel migliore dei modi. Buon
lavoro e grazie.
Dott. Fantechi: Ringraziamo Padre Spagnuolo e diamo inizio al primo corso
di Progetto Cucciolo. Il Progetto nasce dall'idea che la fascia di età dai 5
anni all'adolescenza sia una fascia di età un po' dimenticata dalle istituzioni
e dallo stato italiano che trascura i bambini disadattati fornendo loro solo nei
casi più gravi una psicoterapia difficile da avviare e più delle volte lunga e
costosa. Per bambini che manifestano problemi relazionali e di disadattamento,
molto spesso l'andare dallo psicologo crea una nuova situazione di disagio e lo
porta a percepirsi come diverso nei confronti dei coetanei (cosa che
naturalmente non fa che aggravare il problema).
Partendo da questo tipo di situazione abbiamo pensato di avviare questo progetto
che ha come obiettivo principale formare i futuri "tutors",
giovani ragazzi che avranno il compito di porsi come figura intermedia nella
vita del bambino-ragazzo. Il lavoro del tutor è un lavoro impegnativo, un
lavoro di coinvolgimento con il bambino attraverso il gioco, i compiti, le
passeggiate. La figura del tutor non è dunque quella di una baby-sitter o di un
insegnante, ma neanche quella di padre o di madre "supplente", ma
forse più simile a un fratello o a una sorella maggiore. Il tutor sarà una
giovane donna o un giovane uomo che aiuta il bambino in un rapporto a due per un
periodo che va dall'inizio alla fine dell'anno scolastico attraverso un
intervento domiciliare per 6 ore alla settimana. Il bambino, che il tutor segue,
non vedrà mai lo psicologo, ma sarà il tutor stesso l'anello di congiunzione
fra il bambino e questo. Si tratta di bambini non gravi in cui si ipotizza un
miglioramento delle condizioni attraverso questo tipo di intervento. Il tutor
alla fine di ogni giornata trascorsa con il bambino dovrà tenere un diario
osservativo, sul modello della Tavistock di Londra, che una volta al mese
discuterà con uno psicologo di Progetto Cucciolo che farà da supervisore al
tutor. Il percorso
del tutor è un percorso trasversale che dovrebbe aiutare il bambino a
strutturare un io ausiliario.
Per quanto riguarda il corso si è cercato di strutturarlo in modo tale da poter
alternare la teoria e la pratica tenendo presente che il compito primario del
tutor sarà quello di "giocare" con il bambino.
Iniziamo quindi questo I° corso di Progetto Cucciolo con il Dott. Franco Bruschi psicoterapeuta infantile qualificato al centro studi M. Harris di Firenze.
Dott. Bruschi: "Studi sull'Infant observation".
Nelle diverse epoche storiche il ricorso all'osservazione sembra segnare la comparsa, o la ri-comparsa, di un genuino interesse "scientifico", e più in generale conoscitivo, per lo sviluppo del bambino. A partire dagli anni Sessanta assistiamo ad una generale rinascita dell'interesse per l'osservazione del comportamento infantile nelle condizioni naturali in cui si manifesta nella vita quotidiana, piuttosto che in condizioni artificialmente costruite e manipolate dal ricercatore dove l'osservazione è finalizzata a ordinare in caselle categoriali precostituite l'oggetto osservato o a verificare delle ipotesi e teorie. Da tutto ciò se ne deduce che non possiamo confondere l'osservazione qui concepita con un qualunque sistema motivazionale e classificatorio, sia esso psicologico, filosofico o sociologico, ma che l'osservazione del bambino deve tenere conto della molteplicità dei nessi, di continuità, motivazionali ed esistenziali per il semplice fatto che solo attraverso la molteplicità dei nessi può procedere l'osservazione. A ben pensare l'osservazione è un'attività base della mente umana, conquistata attraverso l'esperienza ed un continuo addestramento che consente all'osservatore di porsi di fronte alla realtà per scoprirne le connotazioni essenziali e generalmente nascoste, ben sapendo che l'osservatore stesso non è fuori del campo di realtà osservata, ma immerso in quel sistema soggetto ai suoi meccanismi di occultamento e condizionamento. Da ciò la conseguenza che l'osservazione non è di per sé "obiettiva", nel senso di permettere una registrazione diretta e fedele della realtà, anzi è costantemente esposta al rischio della soggettività, della parzialità e agli errori o distorsioni che ne derivano ed è per questo come vedremo in seguito che è importante addestrare l'osservatore affinché possa evitare travisamenti e raggiungere una capacità di oggettivazione sufficiente a permettere di effettuare una buona osservazione. D'altra parte l'osservazione diventa obiettiva soltanto nella misura in cui viene condotta secondo procedure controllate, cioè sistematiche, ripetibili e comunicabili.
La rivalutazione del metodo osservativo nella letteratura psicologica degli anni venti è evidente, anche in termini qualitativi, si possono individuare diversi ordini di fattori alla base del rinnovato prestigio di cui gode oggi l'osservazione nello studio dello sviluppo infantile, fattori in parte interni alla comunità scientifica in parte esterni ad essa. Tra i primi rientrano le varie ricerche tese a studiare i "prodotti" dello sviluppo e l'apprendimento piuttosto che i "processi" con analisi centrate esclusivamente su eventi comportamentali statistici piuttosto che sulla loro evoluzione nel tempo, tra i secondi è importante considerare la crescente sensibilità degli psicologi dello sviluppo del bambino a cercare delle risposte del comportamento infantile attraverso l'osservazione con metodiche che tengono conto non solo di quello che viene osservato nella realtà ma anche di quello che viene occultato, si potrebbe dire che il compito del gruppo di lavoro e di supervisione, come vedremo più avanti, è appunto quello di riuscire ad analizzare i vari occultamenti e fattori impliciti ed espliciti che presiedono un dato comportamento umano.
L'Infant Observation che è il metodo di osservazione che vorrei trattare in questa relazione prese inizio negli anni '50 per opera della psicoanalista Esther Bick, i seminari sull'osservazione dei neonati furono iniziati precisamente nel 1949 alla Tavistock Clinic di Londra e si dimostrarono una delle miglioro preparazioni per lo sviluppo di quelle qualità percettive che Bion, psicoanalista inglese di orientamento kleiniano, considera necessarie nella stanza dell'analisi per lo psicoanalista e per lo psicoterapeuta dell'età evolutiva di orientamento analitico e non solo per tali professioni ma per tutti coloro che entrano in contatto con il mondo dell'infanzia nella famiglia, nelle istituzioni educative e nei servizi sociali. Il metodo dell'infant observation si propone quindi come una vera e propria esperienza di formazione e possiamo considerarlo un metodo per apprendere dall'esperienza in modo libero e creativo, un apprendimento basato sostanzialmente sulla pratica dell'osservazione e non sulla teoria dell'osservazione.
"L'apprendimento -scrive Carlo Brutti e Francesco Scotti- si configura innanzi tutto come una forma d'iniziazione perché è un processo in cui l'osservatore ha come oggetto se stesso prima di pretendere di raggiungere altri oggetti. Si caratterizza come un'ascesi in cui l'osservatore fa gravi rinunzie, quasi una purificazione per liberare i propri sensi: rinunzia ad agire, a parlare, a muoversi, a scrivere, ad interpretare e ciò vuol dire, in primo luogo, che l'osservatore deve rinunciare agli atteggiamenti difensivi impliciti in questi comportamenti che, in quanto tali, ostacolano l'osservazione".
Questo metodo si sviluppò in Italia attraverso il fondamentale apporto di Martha Harris, di D. Meltzer e di altri psicoanalisti italiani negli anni '70 e '80 (G. Ferrara Mori, Vallino Macciò, Lussana, Borgogno, Di Cagno, Brutti, Negri e altri) ed è interessante rileggere a questo proposito l'articolo della psicoanalista fiorentina Gina Ferrara Mori e collaboratori sull'osservazione dell'interazione madre-bambino nel primo anno di vita: la presentazione di un'esperienza, con riflessioni e testimonianze, dove la dott.ssa G. Ferrara Mori era una delle prime conduttrici di un gruppo di osservazione del neonato a Firenze.
L'Infant Observation è un metodo che serve fondamentalmente a capire e conoscere lo sviluppo naturale del bambino nel suo ambiente familiare, scolastico e più in generale sociale, cioè in tutte le istituzioni che presiedono alla scolarizzazione. Questo metodo molto importante per gli operatori impegnati nelle varie strutture psicopedagogiche e sociali non si propone di modificare dall'esterno l'ambiente dove vengono accolti, accuditi e socializzati i bambini, ma serve principalmente a riflettere insieme nel gruppo di lavoro sulle emozioni che circolano mirando a pensare allo sviluppo naturale del bambino e alle sue possibili difficoltà di apprendimento, di relazione e più in generale di socializzazione, inoltre serve a pensare insieme ai problemi che i vari operatori incontrano nel loro lavoro con i bambini. Questo metodo assume un valore particolare quando viene applicato all'interno di una struttura sociale come: l'asilo, la scuola materna, quella elementare, nei circoli ricreativi e così via, e viene discusso nel gruppo degli operatori con l'aiuto del conduttore-supervisore, in quanto il gruppo diventa luogo di contenimento e di elaborazione non solo di tutte le problematiche che presiedono allo sviluppo normale del bambino ma anche delle ansie degli operatori che talvolta si sentono in difficoltà nell'affrontare il loro lavoro con i bambini, soprattutto con i bambini "difficili". Nel gruppo c'è la possibilità di pensare alla crescita dei bambini, alle loro difficoltà nell'affrontare le varie separazioni dal nucleo familiare, il gruppo è un luogo privilegiato per studiare il cambiamento non solo dei bambini ma anche di noi stessi come operatori e come esseri umani. A questo proposito sempre Bion in "Attenzione e interpretazione" ha modo di farci comprendere bene la relazione tra contenitore (gruppo) e contenuto (le dinamiche interne al gruppo) e sulla complessa natura del loro interagire, sul sottile diffondersi dei miti e delle mistificazioni che ostacolano in varia misura la verità. "Bion -scrive M. Harris- si preoccupa di cogliere il rapporto tra l'individuo e il gruppo e quello tra gruppi diversi. La discussione delle osservazioni condotta in un piccolo gruppo in cui le preconcezioni teoriche vengono relegate il più possibile sullo sfondo, può costituire un modello per il gruppo di lavoro il cui compito è studiare i vari aspetti del materiale presentato e guardarli da diversi punti di vista fino a che non emerga un disegno evidente". Si può parlare in questo caso di "figura e sfondo" (teoria della Gestalt) dove a seconda che l'attività di esplorazione nel gruppo venga rivolta all'una o all'altra parte del campo emotivo viene messa a fuoco la figura (il bambino osservato) rispetto allo sfondo e viceversa lo sfondo (il contesto sociale dove è inserito il bambino)rispetto alla figura e entrambi insieme, dove viene posto in evidenza che il comportamento del bambino e il suo sviluppo non dipendono soltanto da lui o dall'ambiente ma dall'interazione di entrambi (teoria del campo di K. Lewin).
La discussione del gruppo si riferisce ad una particolare situazione in cui l'osservatore non ha altra responsabilità che quella di osservare rimanendo, allo stesso tempo, in atteggiamento discreto, amichevole e recettivo. Poiché l'impulso ad agire va tenuto d'occhio e frenato, il compito del gruppo è esclusivamente quello di seguire, immaginare e pensare le osservazioni, tenendo presente il ruolo e l'influenza dell'osservatore e sottolineando le difficoltà che spesso si incontrano nel trattenersi dall'agire per migliorare la situazione. Si ha così il tempo di osservare come i rapporti si sviluppino e cambino senza interpretazioni o interventi formali. Questo ci fa pensare alla concezione di Bion secondo cui l'analista è consapevole che il suo compito è quello di osservare fenomeni da cui è possibile ricostruire processi mentali. Martha Harris nella sua grande capacità di aprirsi ed aprire il metodo dell'osservazione a più operatori sociali possibili, siano essi psicologi e non, scrive, nel suo articolo "L'individuo nel gruppo: apprendere a lavorare con il metodo psicoanalitico", che la presenza in un seminario di gente che si accosta ai problemi da punti di vista diversi è un arricchimento, anche se è necessario talora fare i conti con persone la cui esperienza precedente può aver bloccato la spontaneità dell'intuizione.
Ma ora è importante rispondere a una domanda fondamentale per chi si propone di svolgere il difficile compito di osservatore; come avviene l'osservazione e come si deve osservare? Essa in primo luogo fa ricorso a un'attitudine mentale "naturale" che ogni persona ha in sé e quindi è riscontrabile e ritrovabile in tutte le situazioni in cui gli individui prendono contatto con le emozioni e i sentimenti, in quelle situazioni che cercano risposte alle realizzazioni dei bisogni individuali e collettivi, in definitiva in tutte le relazioni umane. "Osservazione" è sostanzialmente come guardare, come stare a vedere, come stare ad ascoltare i bambini nei vari momenti della loro vita emotiva, mentale, relazionale. E' un guardare si potrebbe dire con un "terzo occhio" intuitivo-percettivo, ma è anche un ascoltarsi dentro per sentire ciò che ci suscita emotivamente un dato fatto osservato senza voler capire per forza o spiegare razionalmente tutto. Ricorrendo di nuovo a Bion si potrebbe dire che osservare è anche cercare di sviluppare quella "capacità negativa" che ogni uomo e ogni donna possiedono se sanno perseverare nelle incertezze, attraverso i misteri e i dubbi, senza lasciarsi andare a un'agitata ricerca di fatti e ragioni. Si potrebbe dire che è importante tollerare di rinviare alla riflessione successiva tutto ciò che si è osservato, quella che avviene appunto nel gruppo di lavoro, che ci permette di spiegare le ragioni conscie e inconscie di un dato comportamento o atteggiamento del bambino. La capacità di osservare richiede una "neutralità partecipe" che non arreca disturbo al bambino o ai bambini che vengono osservati, anzi spesso in loro l'osservazione è in grado di agevolare dei processi di pensiero, si potrebbe dire che i bambini osservati si sentono contenuti da una mente che ha la funzione di reverie che sta a designare lo stato mentale aperto alla ricezione di tutti gli oggetti provenienti dall'oggetto amato, quello stato cioè capace di recepire le identificazioni proiettive del bambino, indipendentemente dal fatto se costui le avverta come buone o cattive. Essere ricettivi è la capacità di silenzio e di ascolto, dove il silenzio e l'ascolto sono lo spazio per accogliere e contenere nella mente l'oggetto osservato, la condizione essenziale per la conquista dell'obiettività è appunto la riflessione. Il bambino in questo modo sente la mente dell'adulto come un contenitore capace di accogliere le sue ansie, le sue paure e i suoi timori e questo permette al bambino di sentirsi al sicuro e capito, in lui raramente e solo nei casi di gravi disturbi mentali viene percepito l'osservatore in senso paranoico o n senso persecutorio. Il lavoro di osservazione richiede un impegno in prima persona come osservatore che implica non soltanto l'esecuzione dell'osservatore che può durare variamente dai ¾ d'ora a un'ora e mezza, ma anche la successiva trascrizione nei dettagli, presentazione e partecipazione al gruppo di discussione dove come ho detto sopra si rielabora l'osservazione fatta tutti insieme cercando di trarne spunti significativi di ciò che è accaduto, dei processi emotivi e mentali del bambino, il suo sviluppo e la sua capacità o meno di relazionarsi con gli altri. L'ascolto delle emozioni (controtransferali) dell'osservatore e del gruppo sono parte integrante di quest'ultimo processo di lavoro osservativo. L'operatore sia esso psicologo, educatore o insegnante preposto è infatti delegato dal gruppo a osservare un bambino o un gruppo di bambini e lo fa facendo riferimento a una qualsiasi situazione significativa che può riguardare l'entrata all'asilo o a scuola, o il momento del saluto dei genitori o quando essi ritornano, i momenti turbolenti nel gioco o in altra situazione di vita scolastica, il momento dei processi nutritivi, di separazione dal gruppo o qualche altra situazione particolare che si vuole osservare per trarne delle informazioni su come sentono i bambini e certi bambini cosiddetti difficili le relazioni umane e come essi comunicano sentimenti e emozioni incomprensibili a uno sguardo se pur attento ma non sufficientemente allenato all'osservazione.
L'osservazione del bambino, in particolare, coinvolge parti profonde del mondo interno dell'osservatore, molti aspetti della sua personalità, i modi di sentire e capire la realtà. L'operatore mentre osserva, come sottolineava M. Harris, deve cercare di non farsi coinvolgere troppo dalla situazione osservata e questo per mantenere quella giusta distanza emotiva che occorre per fare una buona osservazione. Una posizione quest'ultima mai raggiunta una volta per sempre ma conquistata e riconquistata continuamente nell'oscillazione tra coinvolgimento confusivo con la realtà e allontanamento eccessivo che fa perdere di vista o distorce l'oggetto da osservare. Ma una posizione di giusta distanza quand'è che si raggiunge? Quale criterio ce ne dà la garanzia? Carlo Brutti e Francesco Scotti sostengono che ci sia un solo criterio cui possiamo fare riferimento: il riconoscimento al di là delle apparenze di un conflitto e delle sue sottili articolazioni che ineriscono non solo alla situazione osservata, ma alla stessa realtà interna dell'osservatore.
"L'osservazione -scrive Di Carlo- è legata al riconoscimento dell'altro e di se stessi, ad una esperienza di reciprocità tra soggetto e oggetto, in cui entrambi i poli della relazione emergono nella loro individualità specifica in un campo emotivo-affettivo che caratterizza questa esperienza umana". Nell'osservazione non solo l'oggetto osservato si differenzia e si presenta nella sua realtà specifica, ma lo stesso soggetto osservante proprio per il conoscere libero e accettante che lo caratterizza, si differenzia e si costituisce nella sua identità. La percezione dell'unicità dell'altro è uno dei segni della ricchezza e dell'autenticità dell'osservazione. Dinanzi a un bambino o a qualsiasi realtà umana verso cui abbiamo un interesse conoscitivo, possiamo facilmente usare stereotipi e categorie riduttive, facili generalizzazioni e massime proiezioni che di volta in volta, ci impediscono di percepire di quella realtà, la particolarità e l'unicità. Obiettivo dell'osservazione è invece, se l'osservazione vuole essere conoscenza, proprio la percezione dell'altro visto il più possibile nella sua soggettività e non come parte di un insieme stereotipo che serve per integrarlo e annetterlo al pregiudizio, al "già visto" dell'osservatore. L'osservazione ed è bene ripeterlo è conoscenza dell'altro nella distinzione e nella reciprocità, senza distinzione e reciprocità vi è l'annessione inglobante dell'oggetto da parte del soggetto o un distanziamento dell'oggetto tale da impedirne ogni reale relazione significativa. Il contributo che la ricerca psicoanalitica dà al problema dell'osservazione sta nel porre al centro dell'atto di osservazione la relazione soggetto-oggetto. Porre al centro questa relazione significa essere consapevoli che per osservare dobbiamo usare noi stessi con la nostra esperienza, con le nostre emozioni, con la nostra cultura, con ciò che siamo e sappiamo, con i nostri limiti umani e, nello stesso tempo, essere impegnati nel distanziare sufficientemente o mettere tra parentesi, ciò che siamo per far emergere proprio l'oggetto da osservare, la nostra relazione con esso e la conoscenza di noi stessi. E' come dire che nell'osservare, per "vedere" l'oggetto e non investirlo con le nostre proiezioni, dobbiamo cercare, insieme, la conoscenza dell'oggetto nella sua unicità e l'ascolto di noi stessi. La possibilità di aprirsi ad una realtà ricca e mutevole, di percepire gli oggetti, di farli essere e vivere, dipende dunque, in ultima analisi, da quanto ci è possibile sapere su noi stessi. In termini psicoanalitici la conoscenza dell'oggetto e la stessa possibilità di osservarlo è connessa alla capacità dell'osservatore di ampliare il proprio spazio interno per andare verso gli oggetti senza cancellarli è dovuta alla possibilità di distanziare nella mente paure o pregiudizi che possono distorcere i significati dell'oggetto. Il problema centrale dell'osservazione è, in altri termini, quello della sua oggettività come ho detto all'inizio di questa discussione. A questa oggettività ci si accosta attraverso il mondo interno dell'osservatore che non va inteso come un registratore indifferente di eventi ma come un insieme di sentimenti e di pensieri che entrano nel processo conoscitivo e il cui codice di letture può essere ampio, aperto alla possibilità e al diverso o viceversa chiuso e pregiudicante. L'osservatore non può non essere consapevole che la sua soggettività costituisce come il sottofondo della percezione dell'oggetto ma non può per questo, se vuole conoscerlo, ridurre l'oggetto a sé, non può annetterlo ai suoi desideri, a ciò che vorrebbe che esso fosse.
Concludendo mi pare importante sottolineare alcuni concetti già espressi e cioè che l'osservazione del bambino ha un notevole significato conoscitivo e formativo, è un metodo per percepire in modo profondo e individualizzato il processo di sviluppo emozionale del bambino e la sua vita de relazione, è un approccio all'infanzia importante per la formazione non solo dello psicoanalista e dello psicoterapeuta, ma di tutti quegli operatori sociali che entrano in contatto con il mondo dell'infanzia nella famiglia e nella scuola, nelle istituzioni educative e nei servizi sociali. Ma a differenza di molti aggiornamenti e formazioni che forniscono informazioni teoriche-pratiche precise su questo o su quello argomento e che poi si traducono in proposte operative specifiche, il metodo dell'osservazione-partecipe non ha una "ricaduta immediata" sul lavoro svolto dagli operatori, non fornisce loro indicazioni precise sul che fare con il bambino, ma ha la funzione di stimolare nell'operatore la ricerca di un confronto con i colleghi per cercare di capire il bambino nella sua relazione con gli altri, cercando anche di sensibilizzarlo a cogliere i frequenti turbamenti emotivi del bambino che spesso passano inosservati e che possono riguardare: le ansie di separazione, i problemi di adattamento all'ambiente nuovo, i problemi legati alla nutrizione, al sonno, al gioco, all'apprendimento e così via. Il lavoro d'osservazione è principalmente "ascolto" e "attenzione" a ciò che viene osservato. Nel gruppo di lavoro-supervisione si apprende non solo a interrogarsi sulla qualità delle relazioni che i bambini instaurano tra di loro e con gli adulti, ma anche a confrontarsi con le nostre emozioni, su ciò che ci suscitano i bambini nel loro interagire e muoversi. Si potrebbe dire che il metodo dell'osservazione è soprattutto un allenamento a saper stare con i bambini, cercando di conoscerne il mondo interno, un allenamento a cercare insieme un punto di convergenza comune sul come trattare i bambini.
Osservare è talvolta ritornare dalla parte del bambino, è un "sedersi sulla sua seggiolina", il che non vuol dire fondersi o confondersi con il bambino o con il genitore, quanto saper ascoltare e ritrovare in se stessi le nostre parti piccole che ci permettono di identificarsi empaticamente con il bambino di cui ci occupiamo o che si osserva per meglio comprenderlo e capirlo nelle sue relazioni con il mondo degli adulti e con i coetanei. Le informazioni che da tali osservazioni scaturiscono possono permetterci di indicare ai genitori e agli educatori il modo per meglio aiutarlo nella sua crescita e nel suo sviluppo emotivo e affettivo. La capacità acquisita attraverso l'allenamento a osservare il bambino genera maggiore fiducia sulla nostra possibilità di comprendere il mondo dell'infanzia, genera poi il piacere di riscoprire un mondo interno spesso dimenticato dall'adulto che è molto ricco di significati. Con una adeguata attenzione ci rendiamo conto che il bambino è capace di comunicarci, non solo con le parole ma anche con i gesti, il gioco simbolico e le relazioni che ha con i coetanei molte cose di lui e di insegnarci la strada per entrare in contatto con i suoi bisogni, le sue ansie e paure per meglio accoglierle. Per finire mi viene in mente che se si è capace di ascoltare e guardare i bambini sono loro stessi a dirci come fare a trattarli a e metterci nella giusta posizione con loro.
Dott. Fantechi: Ringrazio il Dott. Bruschi per il suo intervento. Ora diamo la parola al Dott. Benelli, psicologo, psicoterapeuta e consigliere dell'Ordine regionale della Toscana degli psicologi.
Dott. Benelli: "Il ruolo dello psicologo"
Sono contento di essere qui fra voi perché è come fare un tuffo nel
passato, mi ricordo quando facevo anni fa psicologia a Padova, a quei tempi
esistevano in Italia solo due facoltà: Roma e Padova. Lezioni nei cinema, nelle
scale, studenti provenienti da tutta Italia che dormivano in sacchi a pelo...
Dove sta andando la psicologia? Non lo si può capire se prima non si analizza
il passato. Per esempio poco fa si parlava di gruppi, pensate che negli anni '70
parlare di psicoterapia di gruppo era da eretici, nessuno credeva a
un'esperienza di gruppo, oggi invece la psicoterapia di gruppo è trainante, ha
un futuro. Comunque personalmente io mi sono trovato a vivere i passaggi
istituzionali della psicologia, pensate ad esempio che prima del 1989 chiunque
poteva definirsi psicoanalista, non esisteva una legge che lo vietava. Negli
anni '70 la psicoterapia non aveva identità, oggi con la legge 56/89 lo
psicologo ha un ruolo ben definito al pari dei medici. In seguito all'emanazione
della 56/89, ho lavorato come segretario e abbiamo steso la prima lista degli
psicologi della Toscana. Poi ho fatto il commissario in corte d'Appello per una
seconda trance, poi l'articolo 33 prendeva in esame i giovani e mi sono trovato
in corte d'appello a esaminarlo. In seguito ci sono stati i primi esami a Roma
per l'idoneità, e ho fatto il commissario a Roma alla Sapienza; lì ho visto
persone motivate e preparate. Nel primo consiglio dell'ordine della Toscana ho
contribuito a creare un codice deontologico, a prendere i contatti con gli altri
ordini, ad attivare una professione. Poi mi sono trovato ad essere coordinatore
dell'articolo 35 che riconosce la psicoterapia. Dall'89 ad oggi ho vissuto
dunque molte esperienze che spero possano esservi d'aiuto. Io credo molto in
questa professione e credo che avrà un futuro splendido.
Lo psicologo trova lavoro nell'amministrazione, negli ospedali (oggi è
risaputo che lo stress abbassa la soglia delle difese immunitarie), nel
mondo del lavoro (pensate alle assunzioni, ai test orientativi), nel
tribunale (dove affianca il giudice nelle decisioni), nel servizio
sanitario. Adesso però vorrei che foste voi a farmi delle domande più
specifiche su ciò che vi interessa.
INTERVENTO: Qual è l'iter per accedere alle scuole di psicoterapia?
DOTT. BENELLI: Si accede tranquillamente con la laurea in psicologia indipendentemente dall'indirizzo del corso di laurea che serve solo per un orientamento professionale. Per quanto riguarda le scuole oggi si parla di scuole riconosciute e scuole guadiste, ma è tutto ancora da definire e ora siamo purtroppo in un momento di crisi.
INTERVENTO: E' vero che per accedere a determinate scuole è necessario avere alle spalle 2 anni di analisi?
DOTT. BENELLI: La legge non entra in merito delle psicoterapie individuali, è un filtro che le scuole pongono autonomamente.
INTERVENTO: Qual è l'iter per entrare nel mondo del lavoro?
DOTT. BENELLI: Dopo i cinque anni di università e la laurea, bisogna fare un anno di tirocinio e poi iscriversi all'albo, ottenere l'idoneità e fare domanda all'ordine professionale. Da quel momento si può chiedere la partita I.V.A. e operare come psicologo in base articolo 1 della 56/89 (sostegno psicologico, interventi in comunità). La psicoterapia è regolamentata invece dall'articolo 3 che dice che possono accedere alla psicoterapia medici e psicologi che hanno frequentato una scuola riconosciuta.
INTERVENTO: Quanto durano le scuole di psicoterapia e quanto costano?
DOTT. BENELLI: Le scuole durano circa 4 anni, i costi sono variabili e non includono la terapia individuale.
INTERVENTO: E' necessaria l'iscrizione all'albo per iscriversi alle scuole di psicoterapia?
DOTT. BENELLI: Sì, il tirocinio e l'esame di stato.
INTERVENTO: Per entrare in una scuola come la Tavistock, ci sono altre cose da fare?
DOTT. BRUSCHI: Alla Tavistock ci sono 2 anni di Infant Observation e 4 anni di formazione con annessa la psicoterapia individuale.
INTERVENTO: Per quanto riguarda le scuole pubbliche?
DOTT. BENELLI: Le scuole pubbliche hanno un accesso molto limitato, la selezione avviene in base al curriculum personale e ad una prova scritta
Dott. Fantechi: Adesso la dottoressa Giannetti, che lavora all'università di Firenze, ci parlerà dei disturbi nella socialità
Dott.ssa Giannetti: "Indagini sui disturbi nella socialità"
Il tema di cui vorrei parlare oggi riguarda la ricerca in ambito
universitario, che si traduce poi in intervento. Spero che la mia presenza qui
possa servire da esemplificazione alle possibili applicazioni dell'articolo 1.
Inizi degli anni '70, università norvegese, un professore di nome Olweus
inizia a studiare particolari fenomeni osservabili a scuola, fra ragazzi di una
fascia d'età variabile (dalla terza elementare fino al liceo). Olweus inizia i
suoi studi sollecitato dagli insegnanti che avevano bisogno di comprendere le
difficoltà presenti nella gestione delle relazioni sociali tra ragazzi in
classe. Olweus, studioso e ricercatore approfittò della situazione per
ritagliarsi un terreno di studio e di analisi originale e indipendente rispetto
agli altri studiosi e ricercatori. Individua nel contesto dell'aggressività un
particolare spicchio, quello che il norvegese chiama mobbing e inizia a lavorare
con osservazione diretta e ad elaborare un questionario per verificare la
presenza e la qualità di questo particolare tipo di fenomeno nelle scuole
norvegesi. Poco dopo questo tipo di studio passa in Inghilterra (Smith, Sharp,
Whitney) dove il questionario viene tradotto e il fenomeno assume un preciso
nome: bulling. Nel frattempo in Norvegia stanziarono fondi affinché la ricerca
si espandesse in tutto il territorio nazionale proprio perché è dai dati della
ricerca che si può costruire un'ipotesi di intervento. Dall'Inghilterra la
ricerca si espande a tutta l'Europa. Arriva in Italia perché un docente
dell'università di Firenze conosce bene un ricercatore inglese che aveva
assunto da Olweus lo stile di ricerca-intervento. In Italia si inizia subito a
lavorare alla fase di adattamento del questionario al nostro tessuto
socio-culturale e il termine bulling viene tradotto con la parola prepotenza
perché sembrava che il significato fosse abbastanza univoco a differenza di
quello attribuito alla parola bullismo.
Il questionario è particolare, infatti dopo le prime domande introduttive
c'è la definizione di cosa esattamente si vuole studiare, quindi chi
somministra il questionario nelle varie classi inizia un dibattito con i
ragazzi, li fa parlare e cerca di mettere tutti nella condizione di capire ciò
di cui si sta parlando. Questo potrebbe costituire un limite del questionario la
cui attendibilità si basa anche sulla bontà di chi lo somministra, ma è anche
una risorsa del questionario stesso perché porta piano piano i ragazzi a
riflettere e ragionare su di un certo argomento e questo è un primo passo verso
l'intervento. La definizione data dal questionario fa riferimento a qualcuno che
da solo o in gruppo in maniera sistematica, continuativa sottopone qualcun altro
a continue forme di vessazione, sopraffazione, prepotenza e mortificazione. E'
importante anche il ruolo di chi subisce e se questo abbia oppure no risorse per
reagire e per difendersi.
Una volta fatta la raccolta dati siamo arrivati al momento di operare sui
gruppi all'interno della classe. In Italia il fenomeno esiste ed è superiore a
quello registrato in altri paesi, le scuole e le famiglie chiedono di
intervenire. Si organizza dunque un intervento, lo si pianifica, lo si attiva e
si verifica se l'obiettivo è stato raggiunto. All'inizio, nelle classi, il
fenomeno tende quasi ad aumentare, se ne parla, si lavora sulle emozioni,
sull'ascolto, sul peer counseling e trascorsi alcuni mesi il fenomeno appare
finalmente modificato, realmente diminuito.
Dott. Fantechi: Ringrazio la dottoressa Giannetti e vi presento la dott.ssa Berio psicologa e psicoterapeuta che lavora al servizio di neuropsichiatria della U.S.L. di Firenze.
Dott.ssa Berio: "La psicologia nelle istituzioni: lo spazio organizzato nel territorio"
Per quanto riguarda il servizio sanitario dobbiamo innanzi tutto dire che in
questi ultimi tempi sta diventando più una trincea che un servizio attento a
valutare le situazioni proposte e questo per una mancanza di numero del
personale e un parallelo aumento degli utenti. Problematico inoltre è il
rapporto con l'azienda che gestisce gli interventi dando importanza al prodotto
più che alla qualità e all'efficienza. Tuttavia, nonostante alcuni aspetti
critici comunque presenti, si può parlare di storie individuali a seconda dello
specifico servizio di appartenenza. Comunque parlando degli psicologi che
lavorano nelle USL, dobbiamo dire che sono organizzati in unità operative, ogni
unità operativa ha un direttore (primario dei servizi che fanno capo a lui) e
poi un certo numero di psicologi che collaborano con la figura del direttore.
Ogni psicologo lavora in una o più sedi e si occupa della presa in carico del
singolo utente che arriva o per via diretta, se è il genitore a chiedere un
consulto, o attraverso l'insegnante che segnala il ragazzo per una serie di
presunte o reali patologie. Dopo la segnalazione viene preso l'appuntamento per
la visita che può essere effettuata solo dallo psicologo o da più operatori
insieme e l'iter diagnostico si struttura in un minimo di 3 giorni. La
situazione con gli adolescenti è diversa, necessita di un iter più lungo che
ha anche una funzione terapeutica e serve per aiutare l'adolescente a
riconoscere le proprie ansie e rielaborarle e le valutazioni devono essere
effettuate alla presenza dei genitori nell'ambulatorio. Con i bambini dopo
l'iter diagnostico segue la strutturazione dell'intervento terapeutico che può
tenere conto del bisogno del bambino di una figura di sostegno e di
integrazione.
Per quanto vi posso dire nei riguardi della mia esperienza personale
grazie alla presenza di una sensibilità multidisciplinare presente nella
USL dove ho lavorato, ho potuto sempre attuare un intervento di équipe che
ritengo determinante in quanto consente di avere uno scambio tra i colleghi
e permette di evitare di analizzare il fenomeno esclusivamente in un'ottica
psicologica. L'interdisciplinarietà permette inoltre di poter attuare
interventi terapeutici articolati con figure diverse: non tutto è
risolvibile con una psicodiagnosi e una psicoterapia, ci sono degli
interventi altrettanto utili dove la collaborazione con operatori
psicologici diversi porta ad ottimi risultati. Formulato l'intervento
psicoterapeutico è importante inserire altre figure, che non siano solo lo
psicologo, il fisioterapista ed è stata affiancata la figura del
neuropsichiatra, per fare anche da tramite fra il soggetto e queste. Si può
dire che tutte le volte che all'utente è stata affiancata una figura di
supporto i risultati sono stati ottimi: la figura di riferimento serve alla
famiglia, al soggetto, al terapeuta. Gli studi sull'attaccamento hanno
fornito a questo anche una spiegazione teorica: alterati attaccamenti
passati, possono essere modificati da incontri successivi.
SABATO 24 MAGGIO
Dott. Fantechi: Oggi ricominciamo questo corso con la Dott.ssa Galli che fa parte della scuola relazionale di terapia familiare e farà un intervento su questa tematica e cioè come il tutor si pone a contatto con la famiglia del bambino con il quale dovrà lavorare. Dopo la dottoressa ci sarà la relazione di Matteo Faggiano uno dei quattro ragazzi del terzo anno di psicologia che hanno partecipato a un progetto tutor "privato": anno scorso era necessario sperimentare questo progetto per vedere se funzionava o meno, per questo si sono proposti 4 ragazzi per questa iniziativa. Stamani sentiremo la sua relazione perché questo sia stimolo per tutti per vedere nel pratico di cosa si tratta. Dopo ci sarà l'intervento del Dott. Nincheri che parlerà del caso di un adolescente trattato con l'arte terapia. Infine faremo i gruppi operativi. Oggi pomeriggio ci sarà un workshop sul diario osservativo punto essenziale del futuro lavoro del tutor. Adesso passo la parola alla Dott. Galli che parlerà appunto del tutor a contatto con la famiglia.
Dott.ssa Galli: "Il tutor a contatto con la famiglia".
Buongiorno a tutti. Io ho preparato questa relazione sul significato della famiglia e sugli strumenti da utilizzare nell'approccio con la famiglia cercando di coinvolgervi fin dall'inizio. Vi siete chiesti perché vi parlo della famiglia? Che significato ha, che importanza ha porsi il problema della famiglia, voi in fondo siete il tutor di un bambino, quindi perché é importante parlare della famiglia e prenderla in considerazione?
INTERVENTO: Il bambino non passa la maggior parte della sua vita con noi ma con la famiglia quindi è importante considerarla.
DOTT.SSA GALLI: Esatto. Questo mi da lo spunto anche per fare qualcosa di teorico. Ogni individuo può essere considerato secondo due direzioni:
Bisogna però anche considerare che un individuo è inserito in un contesto familiare, quindi secondo un'ottica che prende in considerazione la famiglia queste due dimensioni diventano anche trasmissione di valori, di cultura. L'asse verticale diventa trasmissione di una storia familiare, di certi pattern relazionali che si sono stabiliti nel tempo, di certi ruoli che si sono trasmessi durante le generazioni, di atteggiamenti, di tabù, di aspettative, di premesse, di vincoli emotivi che ci sono all'interno della famiglia, di fantasie (ognuno può pensare alla propria famiglia, fare riferimento al proprio contesto). L'asse orizzontale visto in quest'ottica diventa un modo di crescere della famiglia stessa. Non so se avete presente il concetto di ciclo vitale: il ciclo vitale è un'astrazione che viene usata per concepire la famiglia come un organismo che con il tempo si modifica, cresce, cambia e si adatta alle diverse esigenze della crescita. In questo ciclo si passano una serie di fasi: infanzia, adolescenza, fase della coppia, della coppia con il primo figlio ecc. Questi stadi ovviamente non sono né fissi nel tempo né costanti né universali perché ad esempio non si è sempre dato importanza allo stadio dell'adolescenza ma è una "invenzione" occidentale del XIX secolo, così come ora si parla dello stadio del giovane adulto come colui che rimane ancora ancorato alla propria famiglia di origine, realtà sociale dei nostri tempi. Un'altra fase è quella del nido vuoto quando i figli se ne vanno da casa e rimane la coppia.
Una definizione che a me piace molto di famiglia è: "la famiglia è matrice di sentimenti". Mi piace perché prende in considerazione gli affetti, le emozioni che sono forse le cose più importanti all'interno di una famiglia, al di là anche delle funzioni che pure sono necessarie, però la dimensione emotivo-affettiva è quella che ha maggior rilevanza. Una definizione classica di famiglia, "da dizionario" è: " la famiglia è un gruppo umano che ha come scopo principale la riproduzione biologica e sociale e che viene generalmente considerata un'unità universale di organizzazione sociale". Ma per voi cos'è la famiglia?
INTERVENTO: E' un insieme di individualità che però alla fine formano un unico elemento.
DOTT.SSA GALLI: Senz'altro è insieme e,
come tutti gli insiemi si può suddividere in sottoinsiemi, fa parte di un
insieme più allargato ecc. Un'altra definizione può essere considerare la
famiglia un gruppo, caratterizzato però dall'avere una storia comune, non è un
gruppo formato a caso, è un piccolo gruppo con storia. Quindi come tutti i
gruppi il tutto è più della somma delle parti; è un più fornito
dall'organizzazione, per cui la famiglia può essere definita come
un'organizzazione nel senso che organizza le relazioni di parentela sia in senso
coniugale che filiale. In senso coniugale sfruttando le differenze di genere, in
senso filiale sfruttando le differenze di generazione.
Da qualunque definizione si parta c'è comunque nella famiglia una
interconnesione tra i membri, ci sono legami profondi e quindi bisogna
tenere presente che tutte le volte che facciamo un intervento anche
marginale su una parte della famiglia ci sono ripercussioni su tutto il
resto. Minuscin (?), terapeuta familiare, fornisce questa definizione di
famiglia: "la famiglia è un sistema socioculturale aperto che si
evolve nel tempo attraverso stadi che richiedono un riadattamento interno.
Da questa definizione deriva che un sintomo di un membro del sistema è un
segnale di un adattamento non riuscito alle richieste di cambiamento
ambientale o evolutivo". Questo vi fornisce anche una definizione di
disagio proprio perché voi avrete a che fare con bambini che comunque
vivono un disagio, quindi ritrovare il senso di questo disagio, capirne il
significato, vuol dire entrare anche nelle trame della struttura familiare
di cui il soggetto fa parte. Un'altra definizione è di Famawolsch (?):
"la famiglia è un sistema aperto che funziona in relazione al suo
contesto socioculturale e si evolve durante il ciclo di vita. Un sistema è
un aggregato di elementi interrelati e interconnessi che formano un
tutto".
La teoria dei sistemi è nata intorno agli anni '40 e prende in considerazione i rapporti che ci sono all'interno di un sistema, rapporti a vari livelli: relazionali, affettivi, emotivi; le funzioni reciproche che svolgono queste parti e le relazioni tra il sistema intero e altri sistemi all'esterno (la famiglia è infatti inserita all'interno di altri contesti sociali di cui fa parte e di cui si deve tenere conto). La teoria dei sistemi non è nata da un momento all'altro ma c'erano già, nella teoria della Gestalt, delle premesse sistemiche particolarmente evidenti in questo passo: " vi sono relazioni che conducono a uno stato nel quale le cause e la natura dei processi dell'insieme non possono essere noti a partire dalla conoscenza dei suoi elementi che esistono da prima sotto forma di parti separate successivamente messe insieme e interconnesse e viceversa qualsiasi comportamento dell'insieme è governato dalle leggi strutturali interne dell'insieme stesso". Adesso vi dico delle caratteristiche generali dei sistemi che sono applicabili a qualunque tipo di sistema e nel frattempo voi pensate al sistema famiglia e soprattutto alla vostra famiglia; le caratteristiche sono:
a)ogni sottosistema è tale in quanto svolge una sua funzione specifica
b)il numero dei sottosistemi è proporzionale al grado di stabilità e flessibilità di questo sistema (quanto più sono diversificate le funzioni all'interno del sistema tanto più questo saprà sopravvivere ai riadattamenti del ciclo vitale, ai riassestamenti richiesti dalle esigenze sia esterne che interne)
c)i sottosistemi sono collegati da una rete per la distribuzione delle informazioni: per informazioni si intende anche comunicazioni
omeostasi: un sistema tende ad essere sempre uguale a se stesso, a mantenersi costante o al massimo entro certi margini di oscillazione (ci sono circuiti a feedback che danno informazioni su come i vari membri del sistema si stanno comportando e c'è un aggiustamento consequenziale a questi comportamenti)
ristabilizzazione reattiva: se c'è un'oscillazione mantenuta entro certi margini non ci si destabilizza più di tanto, bisogna proprio che avvenga qualche evento particolare proveniente dall'esterno a destabilizzare il sistema (un sistema familiare può ad esempio essere messo in crisi da un evento inaspettato come un lutto, o anche qualcosa di piacevole che richiede comunque un riadattamento)
la comunicazione, all'interno dei sistemi, ha un'influenza diffusa, non è univoca e non è neanche unidirezionale; quindi bisogna prendere in considerazione una causalità che non è lineare ma circolare (non c'è mai una causa che produce un effetto, perché l'effetto stesso produce altre cause che produce altri effetti che sono a loro volta cause di altri effetti, quindi ogni azione è anche una reazione ad altri comportamenti)
le condizioni iniziali del sistema non necessariamente determinano lo stato finale perché ci sono tantissime variabili che intervengono nel corso della storia del sistema a portare modifiche, quindi non si può parlare di due sistemi simili per cui ci si aspettano risultati simili, perché sono troppe le variabili: l'organizzazione interna, lo stile di comunicazione, le capacità che un sistema può avere per evolvere
all'interno di un sistema ogni comportamento ha valore di comunicazione sia che sia una comunicazione implicita o esplicita
esistono delle regole (tacite o esplicite) che garantiscono stabilità e identità al sistema, definiscono le aspettative legate ai ruoli e stabiliscono quando le cose si possono fare all'interno di un sistema e fino a che punto si possono fare
Il sistema famiglia ha alcune caratteristiche proprie leggermente diverse da quelle di tutti gli altri sistemi:
è soggetto a continue modifiche nel tempo: lo abbiamo visto quando parlavamo del ciclo vitale, per qualunque tipo di famiglia è inevitabile passare attraverso i vari stadi; magari non tutte le famiglie passano da tutti gli stadi, ma è inevitabile comunque un certo cambiamento
incorpora nuovi membri solo tramite: nascita, adozione e matrimonio: pensate ad altri sistemi dove l'inclusione di altri membri è più comune (sistemi lavorativi)
l'abbandono del gruppo famiglia da parte di uno dei membri avviene soltanto attraverso la morte: questo è importante perché ci sono persone che si illudono di poter lasciare la famiglia prendendo una distanza fisica, temporale ("è tanto che non li vedo"), in realtà siamo indissolubilmente legati al di là di tutto quello che ci piace credere
il vincolo tra i membri è di intensità tale da non essere eguagliato da nessun altro
all'interno del sistema familiare sono più importanti le relazioni emozionali piuttosto che i ruoli o le funzioni (in altri sistemi sono più importanti i ruoli, ad esempio in un sistema lavorativo se un soggetto deve essere sostituito è importante che faccia la stessa funzione). In un contesto familiare è difficile sostituire una persona che manca, può svolgere la stessa funzione ma è il legame affettivo che non viene più ripreso
nessuna relazione, eccetto forse il matrimonio, è instaurata per scelta: non ci pensiamo mai ma tutto è molto determinato all'interno delle nostre relazioni familiari, noi ci abituiamo a vivere queste relazioni come soggetti passivi che possono dare un contributo ma comunque tutto è già rigidamente predeterminato.
Facendo riferimento al bambino che seguirete come tutor, non potete prescindere dal contesto che lui ha trovato quando è nato, dalla struttura che già esisteva, e non solo la struttura della sua famiglia di origine ma ora in terapia familiare si prendono in considerazione tre generazioni nella famiglia proprio perché si considera che all'interno di un ciclo vitale siano contemporaneamente in vita tre generazioni, quindi i ruoli che una persona si trova a vivere durante la sua vita sono molteplici: uno passa dal ruolo di figlio, al ruolo di padre e magari anche al ruolo di nonno.
Adesso può essere utile vedere più nel pratico se è possibile avere una griglia di lettura su cosa poi è utile osservare in una famiglia. Innanzi tutto è necessario analizzare le triadi, cioè non solo le relazioni a due ma le relazioni a tre, perché così è possibile allargare l'inquadratura e fare ipotesi relazionali più complesse. Prendendo in considerazione due persone e la relazione che si instaura tra queste due persone, abbiamo sempre qualcosa che ci manca, rimane troppo spazio alle nostre ipotesi: ad esempio un bambino ribelle in relazione con il babbo, il bambino con il babbo è oppositivo vuol dire che si vuole ribellare a lui perché magari il babbo non lo sa trattare. Può darsi che sia così, però se allarghiamo la prospettiva possiamo anche falsificare questa ipotesi: prendiamo in considerazione all'interno della relazione anche un fratello e vediamo che non è ostile soltanto per fare rabbia al babbo ma magari per lasciare il posto del bambino modello al fratello perché magari tra di loro si è instaurata una relazione tale per cui ci sono dei vincoli di lealtà molto forti. Quindi è necessario considerare le relazioni minimo a tre perché soltanto a due vi può portare fuori strada perché quando si considerano le relazioni a due non si considera il terzo lato di questo triangolo che comunque esiste, è una sorta di "lato tranquillo" sempre presente. Può essere qualcuno che magari non c'è fisicamente all'interno della famiglia ma che ad esempio c'è stato nelle generazioni passate e che è rimasto come figura importante all'interno del nucleo familiare, oppure può essere qualcosa di astratto (ad esempio a volte nei problemi di coppia il "terzo" può essere il lavoro di lui o di lei). Quindi è necessario tenere presente queste triadi e crearsi mentalmente una rete di interconnesioni tra queste triadi, una specie di ragnatela fatta di tanti piccoli triangolini in cui si possono segnalare le relazioni che a voi sembrano più problematiche o che hanno bisogno di più sostegno.
L'atteggiamento che vi consiglierei di tenere durante queste osservazioni è quello della curiosità, anche se sembra superficiale, ma pensate che un sistema funziona con regole proprie, non ci sono regole buone o regole cattive, quindi l'atteggiamento migliore è quello della curiosità, avvicinarsi al sistema con la voglia di capirlo e magari confrontarlo con la vostra esperienza di famiglia perché ciascuno di voi ha una sua esperienza che si porta dietro; magari ad un primo approccio certi modelli di funzionamento interni vi sembreranno strani, strani in relazione al vostro schema interno che avete, quindi è importante che vi prepariate a questa esperienza.
Un'altra cosa importante all'interno dell'osservazione delle famiglie è la concezione del tempo che all'interno di una struttura familiare ha sempre un significato non lineare perché si incrociano sempre diverse dimensioni temporali: pensate alle aspettative che ci possono essere nei confronti di un bambino (le aspettative connettono sempre una dimensione passata a una futura), oppure alla memoria familiare che è comunque il recupero di un passato per portarlo nel presente, o anche le intenzioni sia a livello collettivo che individuale (che cosa si propone di fare una famiglia nel futuro, quali sono le aspettative che ha nei confronti dei vari membri). In particolare le aspettative sono determinanti per un bambino, lo strutturarsi di un'identità ha radici lontane, che come dicevamo possono essere anche di tre generazioni, e a piccoli passi si proietta nel futuro.
Durante il contatto con la famiglia ci sono una serie di punti fondamentali da considerare che possono aiutare a focalizzare certi contenuti che altrimenti andrebbero persi:
1.struttura
Composizione. Si intende con questo termine che vive all'interno della struttura familiare, chi non ci vive ma partecipa alla vita familiare, chi è presente a livello affettivo ecc. In terapia familiare si usa il GENOGRAMMA: è una sorta di albero genealogico in cui con si rappresentano i maschi con quadrati, le femmine con cerchi, le relazioni coniugali vengono rappresentate da una linea orizzontale e quelle filiali con una linea verticale, i figli vanno messi in ordine cronologico di nascita ecc. Così è possibile avere uno schema familiare che a prima vista da la misura di come è strutturata la famiglia: se ci sono tanti figli, se c'è una figura genitoriale che manca, se sono tutte donne, si vede a colpo d'occhio.
Costellazione dei fratelli. La relazione con i fratelli è molto importante tanto da essere definita "laboratorio sociale di apprendimento", è nella relazione con i fratelli che i bambini imparano la contrattazione sociale, il modo di rapportarsi agli altri, il modo di far fronte ad altri membri della famiglia (si possono ad esempio formare delle coalizioni contro i genitori, specialmente in condizioni di difficoltà). Quindi può essere importante vedere se questi bambini sono in "squadra" con qualcun altro, se si sentono sostenuti e supportati o se si sentono emarginati all'interno del contesto familiare. All'interno del sottosistema dei fratelli bisogna inoltre considerare:
Sottosistemi. Un sottosistema può essere, come abbiamo visto quello dei fratelli, un altro può essere quello delle figure femminili (nonna, mamma e figlia, ad esempio, possono formare un sottosistema per conto loro), ce ne sono infinite di possibilità. E' necessario poi vedere che tipo di sottosistemi si sono evidenziati e che tipo di confini hanno: i confini possono essere molto rigidi (quindi fare sempre gruppo chiuso), oppure flessibili, oppure chiusi soltanto in particolari momenti di difficoltà ecc.
Grado di flessibilità familiare. Per flessibilità si intende la capacità di sostituirsi a vicenda, di assumere ruoli diversi in momenti diversi; ovviamente questo ribaltamento di ruoli rappresenta una famiglia sana solo se è temporaneo: può capitare che per un determinato momento per esigenze interne alla famiglia si richieda a un figlio di assumere funzioni genitoriali. Questo darebbe la misura della flessibilità interna alla famiglia quindi della capacità di far fronte a situazioni difficili; se questa modalità poi si cristallizza e diventa un modo troppo rigido diventa patologico (un figlio deve essere figlio e non genitore).
Comunicazione. Bisogna innanzi tutto distinguere tra segni e segnali. Per segni si intendono le espressioni involontarie a livello non verbale e per segnali le espressioni codificate che diventano un linguaggio vero e proprio all'interno della famiglia. Gli elementi non verbali più importanti sono: l'intonazione, gli elementi paralinguistici e gli elementi cinesici. Si distingue a questo proposito: la microcinesica (sguardo, mimica facciale) e la macrocinesica (il modo di porsi: chi sta più vicino a, quanto si guardano, quanto interagiscono)
INTERVENTO: Mi scusi ma è giusto riportare queste espressioni verbali comunemente anche all'interno dei giochi che magari organizziamo con il bambino?
DOTT.SSA GALLI: Giustissimo, anzi è un modo per entrare a far parte di un sistema, è un modo per trovare un canale di comunicazione perché come abbiamo visto il sistema famiglia ha regole proprie, ha una storia e ha delle esperienze condivise. Un membro esterno che deve entrare in contatto con questa famiglia se vuole essere accettato in qualche modo deve trovare questi canali e inserirsi.
Tornando alla comunicazione può essere importante individuare i modelli comunicativi che più frequentemente la famiglia utilizza.
I modelli comunicativi più evidenti sono:
a)conferma. Ad esempio: il bambino chiede qualcosa alla mamma e lei risponde coerentemente a quello che gli è stato chiesto.
b)rifiuto. Il bambino chiede qualcosa e questo viene negato.
c)disconferma. Probabilmente la più grave, nel senso che la richiesta del bambino non viene nemmeno presa in considerazione o viene letta su di un piano emotivo sfalsato che l'effettiva richiesta emotiva non viene colta.
analisi del contesto socioambientale
Carter nella sua analisi contestuale considera questo il primo livello di analisi: per capire le dinamiche di una famiglia non si può prescindere dal contesto ambientale in cui è inserita. Il secondo di questi contesti sarebbe quello multigenerazionale (che abbiamo visto prima) e il terzo quello più specifico del ciclo di vita (in questo momento, questa famiglia che è inserita in questo contesto ambientale e culturale a che richieste si trova a dover rispondere? Qual è il disagio del ciclo di vita che si trova a vivere?). Il contesto non è considerato solo in senso spaziale, ma è un contenitore delle relazioni, è quello che attribuisce significato alle relazioni che osserverete.
stadio del ciclo vitale della famiglia
Coerenza (tra lo stadio del ciclo vitale e gli eventi che accadono). Ad esempio nello stadio dell'infanzia i modelli relazionali saranno quelli dell'accudimento da parte dei genitori, all'interno dell'adolescenza saranno invece lo svincolo e il rifiuto di certi atteggiamenti di accudimento troppo materni; se non c'è coerenza si può assistere in adolescenza a genitori che non accettano lo svincolo del figlio, oppure viceversa è il figlio che continua a richiedere una relazione di tipo infantile.
Capacità di adattarsi al cambiamento. A ciascuno stadio corrisponde un compito evolutivo della famiglia, quindi quanto questa può rispondere alle esigenze dei membri.
Rapporto tra le fasi del ciclo vitale e gli eventi sociali. Parlando dello svincolo tipico dell'adolescenza per la nostra società, ad esempio, è normale che avvenga intorno ai 14-15 anni, in altri contesti può essere diverso, quindi vedere se effettivamente l'età del ragazzo è congruente con quello che ci saremo aspettati in relazione alla normalità statistica.
l'eredità multigenerazionale
Miti familiari. Sono delle costruzioni astratte, dei modelli di conoscenza che la famiglia si è data durante il corso del tempo e che rispecchiano i valori condivisi dai membri della famiglia stessa. Ciascuno di voi se fa riferimento alla propria famiglia può individuare certi miti, cose che non sono mai state dette ma che si sa che sono così: ci sono famiglie che danno importanza alla cultura (i figli devono studiare), alla bellezza ecc. Questi miti hanno inoltre un'importanza notevole per ciascun membro e soprattutto per i bambini, quindi se riuscirete a leggerli "tra le righe" sarà più facile capire il bambino o gli altri che li vivono. In questo senso tipiche sono anche certe frasi che ricordano esperienze condivise, momenti particolari e che magari dette in un contesto esterno rispetto alla famiglia non avrebbero nessun senso.
INTERVENTO: Nel caso venga richiesta una nostra posizione da parte di uno dei membri della famiglia, cosa devo fare, mi faccio guidare dall'istinto o ci sono specifiche regole da seguire?
DOTT.SSA GALLI: Se ti devo dare una risposta ti dico fatti guidare dall'istinto perché regole non ce ne sono, comunque è importantissimo tenere presente tutti i vincoli e tutte le varie alleanze che comunque ci sono tra i membri, quindi se contattate anche marginalmente uno di questi membri è inevitabile che poi contatterete tutto il resto, è un po' come una ragnatela: se la toccate da una parte vibra tutta; è impensabile entrare a far parte di un sistema senza avere ripercussioni su tutti i membri. Quindi è importante farsi guidare dall'istinto senza però coalizzarsi troppo da una parte o dall'altra e anche capire che significato ha per te stare vicino ad uno piuttosto che ad un altro, evidentemente senti che in quel momento lui ha più bisogno di sostegno.
Tornando poi alla nostra eredità multigenerazionale abbiamo:
Copione relazionale. E' composto da tutto un sistema di assunti che ci sono nelle relazioni e che ha già una storia propria e quindi sarà difficile da modificare. Ad esempio tra due fratelli si dice che uno è sempre quello bravo, mentre l'altro non è affidabile ecc. Se riuscite a cogliere questi schemi che tendono ad essere stabili le relazioni assumono un altro significato.
Fedeltà alla famiglia di origine. Ad esempio la fedeltà alla famiglia di origine di ciascuno dei due genitori, quando ciascuna famiglia pesi nella gestione della famiglia attuale (se vivono insieme, se ci sono dei nonni, quanto hanno influito sull'educazione del bambino, che cosa questo comporta nelle dinamiche tra i genitori).
I modelli. Con il genogramma questi sono immediatamente visibili, ad esempio all'interno delle generazioni: il numero dei figli, oppure la quantità dei divorzi o delle separazioni, la tendenza ad avere uno svincolo dalla famiglia d'origine precedentemente alla età media della società. Si tratta di schemi che tendono a perpetuarsi, i più tipici sono:
a)Il modello del funzionamento. Difficile da cogliere, riguarda il funzionamento della famiglia rispetto a determinati eventi esterni (come reagisce questa famiglia ad un lutto? Cosa accade di fronte ad un disagio: si ignora, ci si preoccupa eccessivamente, si chiede aiuto all'esterno).
b)Il modello di relazione. In pratica si individua come si strutturano le relazioni e si deve fare attenzione: alla vicinanza (quando si tende ad essere vicini o distanti nelle relazioni, nel conflitto), all'attivazione di dinamiche di delega (le situazioni problematiche vengono affrontate all'interno della famiglia oppure se vengono delegate a familiari esterni, ad amici).
c)I modelli transazionali. Si intendono determinati schemi di relazione all'interno della famiglia, ad esempio: l'inclusione/esclusione (una coppia con problemi tende ad includere il bambino o a preservarlo dai problemi della coppia), simmetria/complementarità (la simmetria si ha quando due persone si mettono in relazione assumendo ruoli uguali, la complementarità assumono ruoli complementari quindi funzionali l'uno all'altro), triangolazione (consiste nell'includere un terzo membro nella gestione affettiva di una relazione (ad esempio una coppia che ha problemi tende a deviare questi problemi sul figlio, quindi sul genogramma assume la figura di un triangolo ed è in genere una situazione negativa perché il figlio partecipa passivamente e non ha gli strumenti per risolvere il conflitto, oppure viene triangolato nella comunicazione: il padre dice qualcosa al figlio perché venga poi detto alla madre).
Questo è lo schema di osservazione da tenere presente quando vi avvicinerete alla famiglia accompagnandolo, soprattutto, da tutto quello che viene da voi: è importante tenere in considerazione l'impatto emotivo che una certa situazione ha su di voi, anzi probabilmente, è proprio questa la chiave di lettura più adeguata pur non sottovalutando il contesto e le relazioni che vi si instaurano. Grazie per la vostra attenzione.
Dott. Fantechi: Ringrazio la Dott.ssa Galli, credo che questo intervento risponda ad un'esigenza che voi avevate, cioè avere uno schema, un modo attraverso il quale procedere nel futuro lavoro di tutor. Avremo l'opportunità comunque di tornare su questo, infatti vedremo nella prossima relazione un ragazzo che ha già sperimentato questi problemi, inoltre avete sentito la Dott.ssa parlare di questi vincoli che ad esempio nel gruppo operativo già abbiamo affrontato. Ci sono domande che avete da fare alla Dott.ssa Galli?
INTERVENTO: Personalmente, nella mia esperienza di tutor, mi sono trovata coinvolta spesso in questi conflitti di cui lei parlava ed ho sempre cercato, ritenendola la cosa più giusta di non prendere posizione, di rimanere sul vago, lei ritiene che abbia fatto la cosa giusta?
DOTT.SSA GALLI: Senza dubbio. Non prendere posizione è funzionale non solo alla famiglia ma anche a voi stessi perché altrimenti rischiati di rimanere invischiati in questa rete di relazioni precostruite.
DOTT. FANTECHI: Adesso è il momento di un vostro collega, terzo anno di università, che ha fatto un'esperienza di tutor già da 4 mesi: Matteo Faggiano.
Matteo: "Il bambino a due facce".
Carlo è un bambino di origine Rom, primo di due fratelli entrambi in affidamento pre-adottivo. Ha frequentato l'istituto per circa un anno. Il primo incontro con lui risale a 4 mesi fa. Era un sabato mattina ed io e la madre, avevamo concordato una prima presa di contatto con l'ambiente familiare. Ciò che mi ha subito colpito è stata la facilità con cui Carlo distribuiva baci ed abbracci ad uno sconosciuto come me, unita alla propensione verso atteggiamenti aggressivi e violenti utilizzati come modalità per entrare in comunicazione. (Questo tipo di comportamento è frequente nei bambini istituzionalizzati che imparano ad attaccarsi a varie figure e manifestano una spiccata simpatia per gli estranei). Tuttora Carlo non si fa problemi a salutare per strada persone mai viste o ad esprimere commenti ad alta voce come quando ad una signora che camminava accanto a lui con un mazzo di margherite in mano ha esclamato: "Che bei fiori!"
L'elemento principale che ha permesso di intraprendere con buone speranze per il futuro, un intervento di io-ausiliario, è rappresentato dall'entusiasmo di Carlo, dalla sua capacità di reagire positivamente alle situazioni nuove, sbalorditiva se rapportata ad i suoi 6 anni, ancora più incredibile se si pensa che in questi 6 anni Carlo non ha ma sperimentato il calore e la sicurezza di una vera famiglia. Giusto la settimana scorsa quando il padre gli ha prospettato la possibilità del ritorno in istituto, Carlo ha reagito con uno sguardo di terrore, vuoto ed impersonale come chi ha di nuovo perso ogni riferimento e, mentre stavamo facendo i compiti mi ha detto: "Senti, io te lo dico veramente, non voglio andare via da qui, io qui ci sto bene!". Questo mi è sembrato un grande passo avanti, perché ha significato il tentativo di manifestare apertamente ed in maniera adeguata quei sentimenti che Carlo finora ha cercato di nascondere dietro una corazza di impassibilità. I primi tempi la madre stessa era sconcertata di fronte alla impassibilità di Carlo che non sembrava minimamente turbato da alcun tipo di evento, eppure, due settimane fa ha reagito emotivamente ha un piccolo dramma familiare: il fratellino aveva urtato con un occhio lo spigolo del mobile ed il padre era svenuto per lo spavento. Carlo stavolta ha pianto.
A distanza di qualche mese dal primo incontro, mi rendo conto che la regolarità del rapporto (6 ore settimanali suddivise in tre pomeriggi) consente di scoprire progressivamente e con una minima intrusività, le caratteristiche di temperamento del bambino, il suo modo di entrare in relazione, il linguaggio da lui usato per comunicare. L'osservazione diretta all'interno dell'ambiente in cui Carlo vive ed il supporto dell'attività di supervisione, ci ha consentito di mettere in luce tre tematiche principali:
Enuresi. Avviene prevalentemente a scuola. Carlo con il suo comportamento esprime sia il disagio nei confronti di una scuola che per alcuni aspetti lo considera diverso (è iscritto con due nomi : Vedat/Carlo e alle volte i suoi stessi compagni fanno riferimento alla sua pelle scura), sia il desiderio di punizioni fisiche (sculacciate), che costituiscono una forma di contatto preferibile ai continuati silenzi che rappresentano una non-relazione. La madre di Carlo ha provato entrambe le vie, ma quando sperimenta il metodo dello sculaccione, e da quando è stato detto a Carlo che la scuola finirà, il bambino ha smesso di tornare a casa con i pantaloni bagnati. Un parziale successo come questo è stato possibile grazie all'integrazione di informazioni provenienti dalla madre e raccolte direttamente in casa alla presenza del bambino. In particolare ma colpiva il fatto che di ritorno da scuola Carlo dovesse necessariamente cambiarsi i vestiti anche quando non erano bagnati: in questo modo il suo messaggio di vicinanza fisica con la madre avrebbe anche potuto cadere nel vuoto, visto che il pomeriggio lei non era in casa.
Doppia identità. E' una tematica legata alla precedente. Carlo si percepisce come due persone diverse: Vedat-cattivo e Carlo-buono. La scuola in parte alimenta tale scissione dal momento che è iscritto come Vedat/Carlo (come risulta anche dai suoi quaderni). Durante i pomeriggi passati con Carlo ai giardini, ho potuto ricostruire direttamente dia compagni di classe, che la maestra lo chiama Vedat quando disturba l'andamento delle lezioni, Carlo nelle altre circostanze. Forse fare la pipì a scuola è entrare in relazione con la parte cattiva di Carlo che risulta difficile da integrare se viene alimentata una simile doppia identità. Non per nulla, la madre mi ha riferito lo stupore di Carlo nell'apprendere dalla tv la notizia della beatificazione recentemente avvenuta in favore di uno zingaro, come se per lui fosse oramai assodata l'equazione zingaro=cattivo. In effetti mi ricordo che nei primi incontri, quando gli chiedevo spiegazioni dei suoi comportamenti aggressivi con i compagni e con me, Carlo diceva: "Io vorrei esser bravo, ma non ci riesco". Ancora quando lo chiamavo ai giardini, perché era ora di andare, lui fuggiva (provocazione) dicendo: "Sono quelli cattivi che vogliono fregarti".
Provocazioni. Inizialmente erano di tipo fisico, di breve durata ma frequenti. Le prime volte che disegnava in mia presenza, si accaniva sul foglio con una tale violenza che finiva col forarlo, così come era molto probabile che le pagine del libro di lettura finissero dilaniate in piccoli pezzi. Al momento Carlo disegna con tranquillità e notevoli capacità di controllo dello spazio, oltre a leggere con impegno. Non sono del tutto scomparse le sue provocazioni fisiche, ma se inizialmente capitava di frequente che tirasse un pugno od un morso come un impulso incontenibile, adesso evita di colpire direttamente e dosa la potenza del colpo. Ricordo che sempre nei primi tempi era abbastanza frequente che Carlo si divincolasse dalla mia mano mentre lo accompagnavo a casa e cominciasse a correre per fermarsi solo qualche metro più avanti e controllare la mia reazione, giusto per vedere fino a che punto poteva spingersi con le sue provocazioni.
Il lavoro con Carlo non esclude i rapporti con i familiari che sono desiderosi di sapere come procede la "collaborazione", se ci sono progressi o regressioni. Diventa necessario instaurare subito un clima di fiducia reciproca, per far sì che il lavoro vada avanti senza strappi in un flusso continuo di informazioni. Certo è che un tale tipo di rapporto, limitato nell'arco della settimana, ma continuo nell'impegno richiesto, investe il problema del coinvolgimento emotivo. Personalmente mi risulta tuttora difficile trovare l giusta distanza nei confronti di Carlo, tra partecipazione e distacco. Gli ultimi sviluppi sono incoraggianti, sembra che Carlo faccia capolino dall'armatura che si è costruito. Tempo fa gli consigliavo di manifestare a sua madre i suoi stati d'animo; proprio questa settimana mi ha telefonato sua madre raggiante per riferirmi un evento che in altre circostanze può sembrare banale: Carlo è andato da sua madre e le ha detto "Mamma oggi sono proprio felice!"
DOTT. FANTECHI: Vedete quante cose possono accadere in 4 mesi? Carlo poi è un bambino particolarmente difficile, ha vissuto per tanto tempo in un istituto e la vita non era facile.
FAGGIANO: Infatti è così anche se è importante sottolineare che in istituto Carlo ha trovato un "fratellino", un bambino di 2 anni con il quale Carlo ha legato particolarmente a tal punto che la famiglia che ha adottato Carlo, ha dovuto adottare anche il bambino più piccolo.
Dott. Fantechi: Ringraziamo Matteo che vi ha mostrato l'importanza del tutor come figura alternativa a quella dello psicoterapeuta. Adesso sono lieto di presentarvi il Dott. Nincheri socio fondatore di Progetto Cucciolo e membro della commissione scientifica che dovrà valutare a quali bambini permettere di usufruire del programma di tutor. Oggi il dottore farà una relazione sul caso di un adolescente curato con l'arteterapia.
Dott. Nincheri: "Sviluppo di un caso di un adolescente curato con l'arteterapia".
Nel 1982 ero uno psicoanalista neofreudiano e usavo una tecnica che poteva variare a seconda dei casi. Mi capitò in quel periodo una persona che mi costrinse a inventarmi una tecnica nuova. Noi usavamo la psicoanalisi vis a vis, facevamo 2 o 3 ore la settimana, facevamo interpretazione, analizzavamo i sogni e poi ognuno era nel suo metodo libero e creativo. Una mattina venne da me la caposala del reparto di psichiatria di Prato dicendo che sua nipote di 16 anni mostrava tratti di anoressia, bulimia, amenorrea, non andava più a scuola e non parlava più con i genitori, mi chiese se poteva portarla in consulto da me. Si presenta questa ragazzina imbronciata nel mio studio affermando che era stata costretta a venire da me e che non aveva intenzione di "fare tutte quelle robe di Freud". Disse che già vedeva suo zio riflesso nella maniglia della porta e io prontamente risposi: "Cavolo lo vedo anch'io!". Mi venne allora in mente di cercare tra le mattonelle del pavimento un profilo di qualche faccia e glielo mostrai. Dopo un po' lo vide anche lei, le cose erano già cambiate, ci intendevamo. Le chiesi se le piaceva disegnare e le proposi di imparare una nuova tecnica: tutto deriva dal caos, si ritagliano stralci di giornali, si stampa con la trielina, ne deriva un mondo caotico nel quale con immaginazione si riesce a vedere qualcosa. Questo sistema permetteva di simbolizzare i suoi conflitti e quindi esternarli. Durante gli incontri si instaurò una sorta di simbiosi; un giorno le dissi che ormai, dato che si era visto che ci si intendeva, da quel momento in poi ognuno avrebbe fatto da sé. A turno sceglievamo un soggetto da disegnare, quel giorno scelsi un cavallo. Lei controvoglia si mise a disegnare un cavallino molto bello a differenza del mio che anche se anatomicamente era ben fatto, nel complesso era proprio brutto. Lei però continuava ad essere scettica, allora le presi un libro d'arte s fortunatamente il suo somigliava a uno di Chagal. Lei, incredula, inizia rendersi conto della sua possibile identità. Continuammo così per un po' di tempo finché un giorno mi telefonò la madre per avvisarmi che la ragazza non sarebbe venuta più in quanto tutti i sintomi erano scomparsi. Ebbi la fortuna di vedere il futuro di questa ragazza: circa 2 anni dopo mi telefonò per chiedermi un consiglio sull'università e per dirmi che si era fidanzata.
Dott. Fantechi: Ringraziamo il dott. Nincheri che ci ha portato un'esperienza molto interessante anche per capire come nel lavoro (quindi anche in quello di tutor) sia necessario essere fantasiosi e liberi sia nel contatto diretto che nel metodo; l'ascolto della persona che abbiamo davanti può essere raggiunto in tantissimi modi grazie al tesoro che ognuno di noi ha: la creatività.
DOMENICA 25 MAGGIO
Dott. Fantechi: Apro quest'ultima giornata presentandovi la dott.ssa Pezzoli, sociologa, che lavora all'interno dell'università di Scienze Politiche, sui fenomeni mass-mediali. Oggi ci parlerà del rapporto dei bambini con la televisione.
Dott.ssa Pezzoli: "I bambini e la televisione"
Perché occuparsi di tv e perché in relazione ai bambini? Forse per il fatto
che ormai viviamo nella società dell'informazione e della comunicazione e per
il fatto che la tv è un mezzo di comunicazione rilevante sul quale sono stati
condotti pochi studi o perlomeno, non hanno mai avuto riconoscimento accademico.
Questo determina uno sfasamento tra l'importanza che riveste la tv nella
società e la tv l'importanza che riveste la conoscenza della tv nella società.
Perché ci limitiamo a vedere la tv come un mezzo negativo per i bambini? La tv
in sé per sé non è un mezzo negativo, anzi per noi adulti è un mezzo
estremamente positivo che ha svolto numerosi ruoli tra cui quello di aver
insegnato l'italiano. Nel rapporto a due con la tv il bambino recepisce
passivamente quello che la tv dice, fa e propone. Come potremmo rendere questo
rapporto costruttivo? Guardandola, ad esempio, insieme al bambino si possono
usare le immagini che la tv propone per capire quale simbolismo il bambino lega
al messaggio che la tv dà e comprendere così in che modo possiamo intervenire.
I bambini spesso hanno un rapporto molto particolare con la televisione, mentre
noi abbiamo una visione molto negativa di questo rapporto; riuscire a limitare
questa sfasatura, ponendoci nell'ottica del bambino, potrebbe essere una
soluzione.
Uno dei ruoli fondamentali del tutor potrebbe dunque essere quello non di
togliere semplicemente il bambino dalla tv ma imparare il linguaggio della tv e
insegnarglielo al fine di entrare in contatto col bambino anche attraverso uno
strumento diverso quale la tv.
Sulla tv sono state avanzate varie teorie. All'inizio si pensava che mandasse
semplicemente un messaggio che veniva recepito passivamente. Nell'America degli
anni '30, in seguito ad un esperimento durante la campagna elettorale per vedere
quanto questa poteva influenzare, attraverso la tv, i risultati, venne formulata
la "legge ipodermica" (?) che sosteneva che il messaggio veniva
inglobato direttamente dal telespettatore senza mediazione. Piano piano si sono
sviluppate teorie successive in cui si sosteneva che la tv aveva degli effetti
sui telespettatori, ma questi venivano mediati dagli "opinion-leaders".
Si è pensato poi che il rapporto con la televisione riflette un bisogno del
telespettatore. La cosiddetta "teoria dell'uso e gratificazione": lo
spettatore non prende dalla tv quello che questa gli offre ma quello di cui ha
bisogno. Proprio in quest'ottica è necessario rivedere alcune opinioni diffuse
sul rapporto bambino/tv. E' importante fare attenzione a questo rapporto: quali
sono gli eroi preferiti dal bambino, cosa lo spinge alla scelta, quanto
effettivamente il rapporto con la tv è passivo e quanto invece viene visto dal
soggetto come un gioco. Un'altra importante teoria proposta è quella dell'
"interazionismo simbolico" che sostiene che la televisione ci invia
dei simboli con l'intenzione di trasmetterci un significato, ma il significato
che noi attribuiamo a questi simboli è il risultato di una mediazione tra il
nostro stato d'animo e il simbolo stesso. In questo caso il tutor dovrebbe
riuscire a comprendere che tipo di lettura viene fatta dei simboli per capire la
situazione attuale del bambino. Noi riusciamo a mantenere un distacco dalla tv,
il bambino invece si lascia coinvolgere; noi possiamo guardare quello che la tv
ci offre in maniera oggettiva, mentre il bambino vive un'esperienza emotiva e
soggettiva nel rapporto con la tv. I bambini spesso nel giocare usano il
linguaggio della televisione, uniscono realtà e fantasia, è fondamentale
quindi comprendere il rapporto bambino/tv.
Uno dei problemi fondamentali riscontrabile oggi nel rapporto con la tv è
che questa è oramai un rifugio onnipresente nella vita di molte famiglie.
Fortunatamente non lo è ancora all'interno della scuola dove anzi, in molte
regioni, sono stati attivati dei corsi di educazione all'immagine. I bambini
attraverso la tv hanno potuto conoscere cose che fino agli anni '50 non
rientravano nella normale educazione. Il bambino si trova dunque ad avere libero
accesso al mondo degli adulti prima del tempo e questo può comportare grossi
problemi nel momento in cui non viene aiutato a dare un senso a molte immagini e
situazioni che non sono frutto della sua esperienza. E' necessario dunque
ascoltare il bambino per comprendere i massaggi che recepisce dalla tv: alla
luce del fatto che la tv lavora per immagini e per la presenza di una struttura
narrativa, potremmo aiutare a dare un senso a ciò che viene detto dalla
televisione e affrontare le sue paure, le sue angosce e le sue difficoltà.
Vorrei concludere sottolineando una delle cose che non vengono riconosciute
alla tv e cioè il ruolo di focolare domestico: se la famiglia riunita intorno
alla tv discutesse, la tv avrebbe sicuramente un ruolo diverso e soprattutto non
sarebbe reputata cattiva maestra per i bambini.
Dott. Fantechi: "I bambini giocati e la pedagogia del condizionamento"
Dopo aver ringraziato la dott.ssa Pezzoli vorrei parlarvi dei bambini
giocati. Ma dove ce li siamo giocati questi bambini e quando? Ce li siamo
giocati quasi subito, già dal momento in cui ci siamo giocati i bambini che
sono dentro di noi, ce li siamo giocati nella scelta di non dare ascolto alle
nostre problematiche interne.
Il grosso problema dei bambini di oggi è il non riuscire ad esprimere certe
tematiche importantissime che sono: il dolore, la sessualità, i conflitti
interni che il bambino normalmente nel gruppo famiglia e nel gruppo società, ha
una grande difficoltà ad esprimere. Non potendoli esprimere non li può neanche
giocare e forse il nostro obiettivo è proprio dare ai bambini
in difficoltà parole al dolore, alla sofferenza, ai conflitti. Questa è una
tematica molto difficile da affrontare, noi abbiamo la necessità di dover
esternare queste tematiche, ma ne abbiamo una grossa paura, molto spesso è la
società stessa a fornire alibi funzionali per allontanare da noi il problema.
E' difficile dare parole ad una sofferenza, dargli un volto, un significato,
siamo più abituati a prendere un analgesico per sfuggire ad un dolore fisico
che dare parole ad un dolore psicologico ,impresa che invece risulta
particolarmente ardua. Anche i genitori, nel momento in cui si accorgono che il
loro bambino ha un dolore lo negano perché si crea in loro una ferita
narcisistica di notevole entità, e vivono la situazione come una disconferma al
proprio ruolo. I genitori hanno bisogno, per salvaguardare e lenire la
preoccupazione di non saper fare i genitori, di un'immagine dell'infanzia dorata
che non è però reale: il bambino, quando inizia a camminare, cade e quando
cade, insegna la Klein, entra in una depressione che la madre deve contenere.
Progetto Cucciolo si propone di smascherare il dolore celato dalle istituzioni, dalla famiglia, dalla società. Anche la società ha favorito questa situazione, ci si chiede perché la politica dell'infanzia, in questi anni, non abbia favorito la sperimentazione dell'originalità, ma abbia omogeneizzato tutto. E' come se i nostri governanti fossero impauriti di far rivivere questo dolore che tutti noi abbiamo vissuto nell'infanzia, è come se esistesse una sorta di psicologia istituzionale del condizionamento che non vuole affrontare il dolore e reagisce fornendo degli alibi funzionali a salvaguardia della società. Quando il bambino sperimenta situazioni di dolore, la madre dovrebbe mostrarsi al bambino come presenza rassicurante dato che lui agisce per piccoli passi, "tentando". I bambini bisognosi del tutor, sono proprio bambini che "tentano" e il tutor ha il compito di incentivarli fornendo la consapevolezza del fatto che si può anche sbagliare (spesso questi bambini hanno madri che non permettono loro di essere originali, ma per sedare la propria ansia li spingono a conformarsi, a omogeneizzarsi ai canoni che la società impone). I bambini devono procedere per tentativi ed errori che fanno parte della normale crescita maturativa e devono essere vissuti dai genitori con il coraggio di gestire i sensi di colpa provenienti dal non-intervento. Di fronte all madre perfetta, dice M. Klein, si può reagire soltanto distruggendola, però se il bambino pensa di distruggerla nascono i sensi di colpa per aver pensato una cosa del genere. Tutto questo fa nascere nel bambino la quasi totale certezza che giungerà una punizione proporzionale alla colpa che ritiene di avere. D'altra parte di fronte ad un madre così perfetta, ad un società così perfetta, il bambino potrebbe tentare di adeguarsi, ci si ispira a lei in una ricerca di perfezionismo ma di fatto non si riesce quasi mai ad adeguarsi in maniera perfetta a tutto questo e quando si fallisce si mettono in atto delle difese proiettive, si colpevolizzano gli altri , ci si rinchiude nel rapporto con la madre.
Concludendo possiamo dire che la psicologia istituzionale ci fornisce troppi alibi per fuggire da questi contenuti inesprimibili o inespressi, mentre invece una vera psicologia, riguardo queste tematiche dovrebbe essere dialettica. Ogni futuro tutor dovrà avere un'idea della psicologia come flessibile, morbida e dovrà entrare a far parte della famiglia nella quale si troverà ad agire confrontandosi con i vincoli e le tematiche che questa propone. Non solo quando si gioca o si osserva ma anche quando si piange, quando ci si sente soli, cerchiamo di non fuggire dal bambino che è in noi e che dovremmo imparare ad affrontare e conoscere.
Adesso passo la parola all'avvocato Assirelli, legale di Progetto Cucciolo, che farà una carrellata sugli aspetti giuridici che riguardano i minori.
Avv. Assirelli: "Implicazioni giuridiche: le leggi sui bambini".
Partiamo dal concetto di soggetto definito dalla legge come titolare di
diritto e destinatario di ordini. Questo importantissimo concetto nasce con il
diritto romano e si sviluppa nella storia. Ai soggetti del diritto vengono
riconosciute due tipi di capacità: una è la capacità giuridica, acquisita con
la nascita e che sottolinea il fatto di essere titolari di diritti e destinatari
di ordini, l'altra è la capacità di agire che è quella capacità riconosciuta
con il compimento della maggiore età e coincide con la possibilità di compiere
atti a cui la legge dà un preciso valore giuridico. In Italia dal 1975 la
capacità di agire connessa alla maggiore età si ha con il compimento del
diciottesimo anno di età. L'Ordinamento ha un rapporto particolare con il
minore che non è dotato di tale capacità e ha necessità particolari che
pongono molto spesso lo stato in difficoltà.
Abbiamo due profili del rapporto legge-minore: da una arte l'adolescente
se non ha 18 anni si ritiene incapace di intendere e agire e necessita
dunque la tutela di una rappresentanza (dovere della famiglia) dall'altra il
minore ha il diritto fino alla maggiore età ad avere una sistemazione
adeguata che non sempre la famiglia riesce a fornire. Se la custodia e la
cura devono essere necessariamente delegati alla famiglia, altri compiti
possono essere delegati a terzi come ad esempio l'istituzione. Per quanto
riguarda i diritti con connotato prettamente economico, il minore può
ricevere donazioni e altro sotto la tutela della famiglia che ne ottiene la
potestà e cura i suoi interessi. L'altra figura che può tutelare il minore
è quella del tutore che rappresenta il minore e agisce per conto del
minore. Il tutore deve essere nominato dal giudice tutelare, la tutela può
essere di vario tipo: volontaria nel triste caso che il minore si ritrovi
orfano, legittima, dativa nel caso in cui è il giudice a designare il
tutore, assistenziale nel caso in cui il minore venga affidato ai servizi
sociali. Fra maggiore età e minore età esiste una capacità di agire
limitata, designata con il termine emancipazione. L'emancipazione si
acquista in relazione o a delle necessità specifiche, solitamente nel caso
in cui si contragga matrimonio senza aver raggiunto la maggiore età o nel
caso in cui dei minori, a causa di una successione, si trovino a dover
gestire un'impresa. Il minore emancipato può, dunque, compiere una serie di
atti che al minore non sono permessi. Molto spesso al minore emancipato
viene affiancata la figura del curatore che lo assiste nei suoi interessi
senza intervenire nei suoi atti.
Dal punto di vista penalistico il minore può esplicare atti che possono avere una rilevanza penale nel senso che può compiere reati. Come in ambito civile, anche in quello penale abbiamo la differenza tra capacità giuridica e capacità di agire. Nel nostro ordinamento per essere ritenute responsabili di un reato viene richiesta la capacità di intendere e volere, cioè la capacità di comprendere il valore dei propri atti e delle conseguenze che questi possono comportare in futuro. Nel diritto penale il minore non è imputabile. Esiste però una differenziazione: il minore di 14 anni non è mai imputabile, il minore di 18 anni è imputabile se gli sono attribuite capacità di intendere e di volere ma la pena è diminuita. L'art. 125 del codice penale sottolinea che il minore che ha compiuto 16 anni ma non ancora i 18 è perseguibile penalmente dal tribunale dei minori. Il tribunale dei minori è un organo giudiziario con caratteristiche proprie; sono chiamati a farne parte giudici, magistrati, psichiatri, psicologi e assistenti sociali, figure professionali cioè che hanno competenza con problematiche relative ai minori.
Dott. Fantechi:
Ringrazio l'avvocato Assirelli che ha fatto una
carrellata interessantissima sugli aspetti giuridici e amministrativi e
soprattutto è stato chiaro, cosa non facile per gli avvocati!
Adesso vi presento la relazione interessantissima della dottoressa Pallanti
ortofrenista e logopedista che vi parlerà della cattiva lettura.
Dott.ssa Pallanti: "Dislessia: giocare per far sì che non avvenga il disturbo".
Le difficoltà di lettura e di scrittura sono sicuramente il problema più diffuso e frequente che riguarda la popolazione scolastica nella fascia della scuola dell'obbligo. A questo disturbo ci si riferisce solitamente con il termine di dislessia evolutiva però se noi cerchiamo nella letteratura una definizione di dislessia evolutiva ci troviamo di fronte ad una serie di formulazioni spesso dissonanti tra loro; infatti sono state avanzate numerose ipotesi sulla natura e le cause, c'è chi lo attribuisce ad un disturbo ereditario, c'è chi parla di problemi visuo-spaziali, chi ritiene che siano solo problemi di linguaggio.
Nei disturbi di lettura sono compresi bambini che mostrano incapacità ad apprendere la lettura pur essendo intelligenti, motivati ad imparare e con adeguata esperienza scolastica (cioè con una frequenza costante) e che non presentano deficit sensoriali. Solitamente il quadro del bambino cattivo lettore presenta delle caratteristiche particolari: ha un linguaggio strutturato con un vocabolario lievemente inferiore all'età, presenta una buona comprensione del linguaggio verbale, evidenzia invece lacune più o meno grandi nell'attività percettiva. La sua maturazione psicomotoria è inadeguata, ha uno schema corporeo carente, disorientato nello spazio e nel tempo e alle volte è anche goffo e maldestro. La consapevolezza dei propri limiti provoca l'instaurarsi di alterazioni emotive che aggravano e limitano l sue prestazioni. Purtroppo questo disturbo che dovrebbe riguardare l'apprendimento scolastico diventa una turba invalidante che condizionerà il futuro del soggetto. Per poter capire perché l'apprendimento della lettura è un grandissimo scoglio per alcuni bambini analizzeremo le regole che esige la lettura. Quello che esige la lettura è
Orientamento fisso. Si legge da sinistra a destra in tutte le righe, in tutte le parole, dall'alto al basso del foglio. Questo modo di procedere è molto più difficile di quanto si possa comunemente pensare, l'occhio che legge infatti con procede con movimento uniforme ma attraverso piccoli sbalzi rapidi seguiti da momenti di riposo. Il bambino cattivo lettore solitamente perde il segno, salta le parole, legge le parole unite.
Visualizzazione e fissazione delle forme. Ogni parola ha una forma orientata e così ogni lettera, l'ambiguità di orientamento di una lettera risponde ad un cambiamento di questa perché per distinguere una lettera bisogna aver chiari alcuni punti di riferimento (alto, basso, destra, sinistra). Il bambino per attuare una buona organizzazione spaziale deve contare su una precisa valutazione del proprio sistema corporeo e nel riconoscimento grafico crea le stesse confusioni che fa a d esempio nel distinguere la sua parte destra e sinistra. Non in tutti i bambini i rapporti spaziali vengono a strutturarsi secondo lo stesso ritmo, ci sono bambini che a 9,10 anni non hanno ancora una organizzazione visivo-spaziale perfetta e di questo ne risente la lettura (esempio: p b, q d, 6 9 ).
Distanza in relazione alle parole, alla loro lettura e punteggiatura. La distanza permette e richiama la memorizzazione delle parole passate e consente di capire le parole future. Gli errori tipici sono: ritornare indietro sulla parola, la punteggiatura che non viene utilizzata, una lettura inespressiva e esitante.
Padronanza della relazione significato-suono. Nella nostra lettura ogni lettera corrisponde ad un suono e per leggere è necessario conoscere la corrispondenza fra segno visivo e movimento articolatorio che è destinato a riprodurre il suono. La maggior parte dei bambini ha difficoltà a comprendere che le lettere corrispondono alle articolazioni elementari del linguaggio parlato.
Sincronizzazione della lettura. Comporta i movimenti oculomotori, un linguaggio interiore da coordinare con i movimenti respiratori.
Viste le esigenze della lettura e le difficoltà che incontra il bambino possiamo tracciare delle condizioni indispensabili e favorevoli per l'apprendimento della lettura. Le condizioni indispensabili sono: la padronanza della comunicazione, il passaggio permanente dall'analisi all sintesi e dalla sintesi all'analisi e la stabilità affettiva che è alla base di ogni tipo di apprendimento. Le condizioni favorevoli sono: una buona percezione visiva e uditiva, una sufficiente strutturazione spaziale, una sufficiente strutturazione temporale, una buona memorizzazione e attenzione a un linguaggio con forme sintattiche semplici e una buona pronuncia. Venire a conoscenza delle condizioni indispensabili e necessarie per l'apprendimento della lettura e della scrittura può essere d'aiuto nello stabilire cure preventive e valutare e incentivare le attività del bambino. In questo modo è possibile attuare una serie di giochi per aiutare il bambino a migliorare la sua condizione, la sua attività e il suo apprendimento (manipolazione di vari materiali, salire e scendere le scale, andare in bicicletta, trasportare oggetti).
Dott. Fantechi: Ringrazio la dott.ssa Pallanti e vi presento adesso una vostra compagna che frequenta il terzo anni di psicologia all'università di Firenze: Giada Bianchi.
Giada: "Chiara che cammina con i gatti".
Quando mi è stato chiesto di preparare una relazione sulla mia esperienza con Chiara, non nascondo di aver provato, almeno inizialmente, un senso di imbarazzo, un po' perché mi è difficile parlare del rapporto complesso ed esclusivo che ho con lei e che in qualche modo mi sento di dover difendere, un po' perché l'assistenza domiciliare mi ha portato a conoscere quelli che sono i legami, i punti deboli e forti di una famiglia, la loro vita privata, la loro intimità. E' come se possedessi le chiavi di un diario segreto che non è il mio. Per questo motivo mi ci sono voluti alcuni giorni per organizzare il discorso intorno a quello che secondo me era necessario riportare di tutto questo nella relazione al fine di far comprendere la mia esperienza.
Chiara ha 6 anni. La cartella clinica redatta due anni fa dalla neuropsichiatra riporta, fra le altre cose, quanto segue: "Chiara è affetta da paraparesi per leucomalacia preventricolare in prematuro". Ha frequentato il nido e l'asilo con insegnante di sostegno. Entra facilmente in relazione con gli adulti e i coetanei preferendo assumere più il ruolo di osservatrice che di protagonista. A volte durante i vissuti ansiogeni tende ad inibire la sua capacità di pensare.
Ho conosciuto la madre nello studio del dott. Fantechi. Quel giorno mi ha parlato a lungo di Chiara, mi ha detto che secondo lei era potenzialmente intelligente solo che i suoi deficit motori non le avevano fornito il supporto per lo sviluppo cognitivo. Dal suo racconto è emerso che Chiara ha un rapporto esclusivo con la madre, infatti la usa come filtro attraverso cui riesce a vedere la realtà senza farsi male. E' gelosissima di questo rapporto e avverte ogni tentativo di indipendenza da parte della madre come mancanza di amore. Si fa spesso male. Piange a lungo ininterrottamente, si strappa i capelli e si infila le unghie nelle gengive, si graffia. Secondo la madre questo avviene probabilmente quando prende coscienza della sua condizione. Mi ha detto che Chiara manifesta comportamenti autistici e che negli ultimi tempi è stata vittima di una regressione per cui non riesce più a camminare con l'aiuto dei tripodi (cosa che prima, secondo la madre riusciva a fare). Altra conseguenza di questa regressione è che Chiara dorme con lei e con il padre e fa la pipì a letto (cosa, secondo la madre, da risolvere al più presto). Chiara ha una sorella molto più grande che non vive più con loro e a cui vuole molto bene; il rapporto con il padre è inesistente.
La volta successiva il dott. Fantechi mi illustrò brevemente quello che avrebbe dovuto essere il mio ruolo in questa complessa situazione: aiutare Chiara a costruirsi un io-ausiliario che fosse capace di renderla più autonoma e indipendente. Il mio rapporto con lei sarebbe servito, con il tempo ad allentare e poi a rompere il rapporto simbiotico con la madre, rapporto vissuto da entrambe come se fossero un'unica persona: Chiara è la madre da piccola, la madre è Chiara da grande. Creando legami di altro tipo questo rapporto sarebbe diventato meno simbiotico e meno soffocante per cui entrambe ne avrebbero tratto giovamento.
Ho conosciuto Chiara 4 mesi fa. Se ripenso alla prima volta che l'ho incontrata non posso fare a meno di constatare quanto lei sia cambiata e cresciuta e quanto siamo cambiate e cresciute l'immagine che ho di lei e il nostro modo do rapportarci, per non parlare poi dei miei cambiamenti e della mia crescita.
Ho incontrato Chiara nello studio del dott. Fantechi, l'ho vista arrivare su di un passeggino da bambini spinto dalla madre. E' una bella bambina, bionda e con gli occhi azzurri anche se nascosti dagli occhiali. Eravamo entrambe molto emozionate. Già da diversi giorni stavo riorganizzando dentro di me le informazioni che avevo ricevuto su di lei, quelle della madre (anche a proposito della neuropsichiatra) e le poche indicazioni fornitemi dal dott. Fantechi. In effetti questa sorta di preparazione psicologica, inizialmente si era trasformata in un recinto nella mia mente in cui avrei inserito Chiara, imprigionandola. In seguito, per lo sforzo di entrambe, Chiara sarebbe uscita da queste barriere (fisiche e mentali). Appena mi ha visto ha cominciato a dirmi: "Come sei bella Giada Bianchi, sembri la principessa delle favole". Me lo ha ripetuto talmente tante volte che riesco ancora a sentire la sua voce.
Quel giorno siamo andate a casa sua. Mi ha chiesto di vedere un cartone animato, poi ha voltato le spalle a me e alla televisione ruotando un po' la testa in una posizione strana (quasi come di ascolto). Sua madre mi ha detto che quel cartone le piaceva tanto e che lo vedeva quasi tutti i giorni. (Io ero rimasta semplicemente colpita dal suo modo anomalo di guardare la tv che secondo me in quella posizione non poteva vedere). Ho cercato di richiamare la sua attenzione ma sinceramente non sapevo come muovermi, come comportarmi. E in effetti nel mondo di Chiara ci sono dovuta entrare i punta di piedi.
Per esporre con chiarezza questa mia esperienza avevo pensato in un primo momento di dividere le diverse sfere: affettiva, emotiva, cognitiva, motoria e riportare brevemente i suoi progressi in merito. Poi ho capito che il gioco è l'elemento in cui tutti questi aspetti si manifestano, esprimono ed accomunano; è stato proprio attraverso il gioco che sono riuscita ad entrare in comunicazione con lei. Il gioco è la chiave che mi permette di accedere al suo mondo. Non nascondo di aver provato imbarazzo la prima volta che mi sono trovata ad inventare un gioco da fare con lei, primo perché è da tanto che non gioco e che non faccio giocare, secondo perché con una bambina che non riesce a muoversi e che manifesta comportamenti autistici diventa ancora più difficile giocare. Il primo gioco che ho "azzardato" a fare è stato quello di andare a trovare la principessa al suo castello. A Chiara è piaciuto così tanto che per molto tempo tutti i giochi si sono chiamati "andare al castello di". Le prime volte il gioco rappresentava sempre un arco di tempo limitato (esempio: andare al castello a fare merenda), Chiara era molto ripetitiva e ogni mio tentativo di cambiare anche lievemente la scena la disturbava e la portava ad irrigidirsi ed a ripetere esattamente le stesse frasi della scenetta.
Lo spazio in cui Chiara inizialmente viveva i suoi giochi erano le parallele (spazio di 1 metro per 2 in cui lei trascorreva e trascorre, la maggior parte del suo tempo). La prima cosa che ho notato è stato che nonostante il fatto che le parallele rappresentavano il suo spazio abituale non riusciva a vivere e a dominare questo spazio. Gli oggetti che la circondavano avevano un posto preciso ma lei non lo usava, non la interessavano, a lei piaceva soprattutto fantasticare, ogni azione veniva vissuta soprattutto a livello immaginativo, mentale. Col passare del tempo mi sono resa conto che la famosa regressione di Chiara era alquanto improbabile, soprattutto sul piano motorio. La sua mancanza totale di equilibrio senza il sostegno di qualcuno e la sua mancanza di coordinazione a livello di movimenti degli arti inferiori mi hanno fatto intuire che Chiara non sarebbe riuscita a camminare di nuovo coi tripodi da sola e che quasi sicuramente non era mai riuscita a farlo senza il sostegno di qualcuno. Da questo è nata l'esigenza di vederla uscire da quelle parallele e farla muovere in qualche modo da sola, in modo indipendente. La soluzione di tutto questo è stata quella di farla camminare come i gatti (come dice lei). Ho scoperto poi parlando con la madre che la fase dello sviluppo in cui il bambino si muove a gattoni Chiara l'aveva praticamente saltata. C'è voluto del tempo per convincerla e per convincere la madre a vedere la figlia camminare con i gatti e credo che ancora oggi la madre rifiuti questa cosa nonostante i suoi sforzi; è stato difficile convincerle ad accettare questa forma di locomozione primitiva e bizzarra, per entrambe era un segno d vergogna al punto in cui la madre mi ha proposto di permettere a Chiara di muoversi in casa prendendo una sedia a rotelle. Ho insistito tanto e ho dovuto vincere numerose resistenze per riuscire nella 2 ore, 2 volte la settimana (tempo che trascorro con Chiara) a farla muovere in questo modo. I risultati per fortuna si sono manifestati presto. Un giorno Chiara mentre camminava come i gatti si è voltata e mi ha gridato "Guarda Giada -compiacendosi dello spazio che aveva percorso da sola- ho volato come un uccellino!" . Da quando ci spostiamo entrambe a 4 zampe, il suo spazio fisico e psicologico si è esteso: Chiara riesce a toccare gli oggetti, a farli muovere, a collocarli nello spazio (riesce a prendere un bicchiere dal tavolo basso o un giocattolo dal cesto) e sta iniziando, soprattutto per evitare di sbattere la testa, a coordinare la vista (che ha poco) con gli altri sensi di cui si serve abitualmente. I giochi sono diventati svariati: usiamo il didò (per fare le pizze), usiamo la cucina (è lei che apparecchia, sparecchia, cerca gli oggetti nella scatola, anche se a volte fa un po' di fatica) e il tempo che viviamo insieme è più articolato. Il nostro rapporto è cambiato e si è evoluto: sempre più frequentemente mi guarda negli occhi quando parlo ed io sto imparando ad ascoltare. Mi ha insegnato ad ascoltarla, fino in fondo, senza nterromperla e senza cercare di completarle le frasi che spesso a fatica si trascina avanti. Nei giochi ogni tanto cerca il mio sguardo e vuole essere rassicurata anche se è sempre più tesa verso una sua indipendenza: io l'aspetto in un posto, lei mi raggiunge da sola (di recente portando con sé anche una macchina di plastica che fa sfrecciare sul pavimento. E' lei che si organizza i giochi. Io ho spesso un ruolo passivo: è lei che si occupa di me anche se come figura io sono la mamma.
C'è un altro tipo di giochi che facciamo insieme: sono i giochi dei chiarimenti. Questi giochi sono nati da una situazione già esistente, Chiara reprime i suoi sentimenti aggressivi, per cui ogni tanto inevitabilmente, esplodono. Quando prova angoscia e sensi di colpa li dissocia perché rappresentano quella parte di lei che non accetta. Per questo motivo, oltre che a trovare momenti nei giochi in cui lei può scaricare l'aggressività senza provocare angoscia (battere le mani, cantare a squarciagola) ho inventato il personaggio della "nonnina sbadatina" (che interpreto bene perché spesso sono realmente sbadata) anziana signora che sbaglia continuamente e, tutte le volte, Chiara la corregge. La nonnina chiede: "Ma mi vuoi bene lo stesso anche se sbaglio vero?" E con questo personaggio che all'inizio Chiara non accettava e che il dott. Fantechi invece mi ha incoraggiato a portare avanti, Chiara si è abituata ad accettare il mio lato imperfetto per cui se non altro sempre più spesso riesce a parlarmi del fatto che non è sempre buonissima e che a volte fa i capricci. La rassicura sapere che non c'è niente di spaventoso in ciò che prova. Da qui partono i giochi dei chiarimenti così se ad esempio ha litigato con la madre il litigo viene rivissuto e lei stavolta fa la parte della madre cercando di argomentare le sue ragioni.
Se devo essere sincera non è sempre facile e piacevole per me vivere questo rapporto che spesso mi porta via molta energia. Chiara mi spinge a confrontarmi con me stessa, con i miei limiti, con il mio passato, con la parte bambina che è in me, rimette in discussione la visione che ho di me stessa. Il mio sostegno in tutta questa situazione è stata la supervisione; il dott. Fantechi mi ha aiutato in questo mio percorso con Chiara permettendomi di focalizzare alcuni punti importanti del mio ruolo. Si è preoccupato di me e del distacco emotivo che non sempre riuscivo a tenere. Ci sono stati dei momenti in cui mi sono dovuta allontanare da Chiara quasi per ricaricarmi per poi rimettermi in discussione in questo rapporto. La supervisione mi ha dato gli strumenti per riconoscere e affrontare il sentimento di onnipotenza che inevitabilmente affiora in rapporti delicati come quelli tra tutor e bambino; questo mi ha portato spesso a dover ridimensionare il mio ruolo e dargli la giusta conformazione. Adesso riesco quindi a riconoscere entrambe le facce del sentimento di onnipotenza: quella di credere che puoi vincere qualsiasi limite del bambino e l'altra di credere che qualsiasi esperienza (soprattutto dolorosa) che gli possa accadere, dipende anche da te e dal tuo non averlo saputo aiutare.
Dott. Fantechi: Grazie molte Giada. Avete delle domande da fare alla vostra compagna?
INTERVENTO: I genitori sono preparati alla collaborazione con il tutor?
DOTT. FANTECHI: I genitori devono essere estremamente disponibili, vengono preparati tramite il primo colloquio con il supervisore all'incontro e poi nasce la proposta di collaborazione anche dal loro desiderio di migliorare la condizione del figlio provando un'esperienza di questo genere. Le dinamiche sono tuttavia inconscie e noi sappiamo che possono verificarsi incomprensioni e problemi che vengono affrontati in supervisione. Il tutor ha la consapevolezza di avere un ruolo complicato, non facile e che non può non schierarsi.
DOTT. BRUSCHI: Questo problema mi richiama alla mente il concetto di alleanza. Se nasce un'alleanza tra il tutor e il bambino si può costruire qualcosa, se nascono delle conflittualità la famiglia diviene un terreno di scontro.
INTERVENTO: Dal caso di T. Maschietto (un'altra ragazza che ha fatto un'esperienza di tutor), emerso nel gruppo operativo fatto ieri, è venuto fuori che molto spesso i genitori vedono nel tutor una possibile fuga dai problemi che il figlio crea; ma allora come si inquadra la figura del tutor? Deve necessariamente essere l'alleato di qualcuno? E di chi, dei genitori o del bambino?
TANIA MASCHIETTO: A me personalmente è rimasto molto difficile non essere coinvolta nella situazione; il bambino che ho seguito, mi ha visto fin dall'inizio come un'alleata dei genitori e sicuramente anche per questo la collaborazione non è continuata.
DOTT. FANTECHI: L'esperienza di Tania, che non casualmente non è continuata, era complessa. Si trattava di un preadolescente che ha un desiderio grande di migliorare il rapporto con il padre; dopo anni di psicoterapia ha rifiutato un terapeuta maschio che vedeva come sostituto del padre. L'impossibilità di questo bambino di avere il sostegno della coppia genitoriale creava un ostacolo al percorso del tutor.
INTERVENTO: Giada, come vivi nel rapporto con Chiara ogni probabile insuccesso?
GIADA BIANCHI: Io credo che in un rapporto ci siano sempre i momenti in cui prevalgono gli insuccessi. A causa del mio carattere, io tendo molto a colpevolizzarmi ma questo problema è stato affrontato anche in supervisione e ciò mi ha aiutato molto.
MICHELE MAIONCHI: Anch'io ho avuto un'esperienza di tutor che sto ancora portando avanti e vi posso dire che una cosa essenziale è non partire dall'idea di poter risolvere tutto. Ci sono giornate più negative rispetto ad altre, ma non per questo bisogna scoraggiarsi; la supervisione in questo senso ci aiuta, ci permette di affrontare i risvolti emotivi del tutoraggio.
DOTT. FANTECHI: La grande preoccupazione è quella del coinvolgimento emotivo che è una componente molto importante, rappresenta il vero punto di forza nella riuscita del rapporto.Nel tutoraggio proposto da Progetto Cucciolo,il tutor viene pagato proprio per creare un certo distacco emotivo dal suo intervento, altrimenti avremmo potuto creare un'associazione di volontariato, ma questo rischiava proprio di far perdere al tutor il necessario distacco.
Ringrazio i ragazzi che hanno partecipato alle prime esperienze di tutoraggio svolte per sondare il terreno ancora prima della nascita ufficiale di Progetto Cucciolo e adesso vi presento la dottoressa Cresti psicologa e psicoterapeuta che riprenderà il discorso sull'arteterapia.
Dott.ssa Cresti: "L'art therapy"
Oggi vorrei parlarvi soprattutto dell'importanza del colore. Il colore in natura è richiamo, messaggio, incanto e seduzione (sappiamo che Eros nasce da Iris, la dea dalla sciarpa arcobaleno a indicare quindi la mutazione del colore). I colori rivelano intimi significati e il simbolismo sentimentale dell'oggetto, la mancanza infatti di colore nel mondo del soggetto è indice di un distanziamento dai contenuti emotivi tanto che le valenze affettive del colore sono state ben individuate anche come indici di conoscenza del soggetto. Le risposte al colore nelle macchie di Rorschach rivestono una notevole importanza diagnostica, evidenziando un aspetto di organizzazione attiva della percezione e fornendo molti ragguagli sui processi di adattamento della persona. Nel rapporto del colore con l'affetto, l'esperienza sembra dimostrare che l'uso dei colori da parte del soggetto è espressione degli affetti giacché i colori eserciterebbero un controllo sugli impulsi nella vita quotidiana di tutti noi. Una scelta troppo laterale tra colore e forma sarebbe decisiva per l'importanza diagnostica: gli individui di carattere euforico sarebbero più suscettibili al colore, mentre i depressi reagirebbero per preferenza alla forma. La preferenza per il colore indica un'apertura verso gli stimoli esterni; la preferenza per la forma invece si accorda con un carattere introverso e dotato di un forte controllo degli impulsi. Certo è che l'esperienza del colore somiglia a quella dell'affetto e dell'emozione: l'emozione, ad esempio, presuppone un'apertura che una persona depressa non può avere. La presenza o assenza del colore nello psichismo umano riveste un preciso significato, un noto fisiologo ha potuto asserire che i depressi e molti nevrotici vedono il mondo in grigio e non solo metaforicamente. Una paziente di Bettelheim colorava con dei gessetti il foglio solo di nero, anche avendo a disposizione molti colori e quando la cura iniziò a funzionare ci fu nei suoi disegni un'esplosione di colori a significare un cambiamento nel suo modo di vivere. Il bianco stava probabilmente a significare il vuoto che aveva trovato nella madre, mentre il nero simboleggiava forse il fatto che cercava di dare dei contenuti a quel bianco. Un'altra sua paziente vedeva nei colori un qualcosa di molto pericoloso a tal punto da mettere in pericolo la sua vita e quella degli altri: "Certi colori -diceva- interrompono la corrente e nessuno li deve toccare". Il bianco e il nero solitamente vengono considerati non colori e hanno una valenza di stasi, di silenzio e possiamo riconoscere in loro il silenzio della mente e quello della nascita. Il grigio è verità inconsolabile. Il giallo è vitalità, follia, estremizzazione; l'azzurro può essere lontananza, spiritualizzazione, è un guardare qualcosa al di fuori di sé, è il colore della profondità, dell'indefinito.
Il colore ha ancora molti punti insoluti, ad esempio ci si chiede la relazione fra colori ed emozioni. Il Benedetti nota che devono esistere per forza delle relazioni come possiamo desumere dall'etologia che indica come siano importanti determinanti colori perché si mettono in moto sequenze istintive: la ricezione di colori particolari scatena meccanismi emotivi specifici. Negli animali, ad esempio alcuni colori scatenano repentine emozioni. Anche in neuropsichiatria si ha esperienza delle relazioni che intercorrono tra percezione e stati emotivi: se la depressione tinge di nero tutta la vita, la schizofrenia invece ha un'alterata percezione luminosa e dimensionale il che porta a pensare che il disinvestimento di alcune dimensioni psicologiche conduca ad una regressione tale da riportare il soggetto alla fase arcaica in cui la visione del colore non era cromata. Nello schizofrenico si avrebbe, secondo questa teoria, una regressione ad uterum, fino a nuotare nel bianco per ricongiungersi indissolubilmente con l'immagine bianca. Dice Freud che in questo tipo di malati la libido, spostandosi sugli oggetti, ne tolga l'ombra e allora l luce accecante investe il soggetto che non percepisce più i colori. La perdita della percezione del colore è per il soggetto una catastrofe. Perché i sogni sono in bianco e nero? Spesso noi pensiamo di aver sognato a colori ma è solo un voler colorare il ricordo per caricarlo di un significato emotivo. Al colore possiamo dare valore di simbolo considerando però la sua eccedenza di significato che ha valore affettivo. L'assenza del colore è dunque indice di problematiche. Spie dunque di tutta una gamma di significazioni affettive, i colori non sono solo elementi che caratterizzano l'oggetto ma ne rivelano l'ultima significazione e il simbolismo sentimentale.
Nel rapporto con i bambini è molto interessante vedere dove e come i bambini usano il colore. I bambini possono utilizzare i colori in modo simbolico o in modo espressivo; naturalmente c'è tutta una sintassi del colore che non è facile da intuire perché il colore, come tutti i simboli, è polivalente: ad esempio il rosso è il colore di Eros ma anche di Thanatos, nessun colore ha un significato univoco ma assume un significato in relazione ad altri colori e alle forme che il bambino percepisce. Il messaggio che il bambino trasmette attraverso i suoi disegni è molto importante perché ci può aiutare a verificare quali sono i suoi sentimenti, le sue ansie, le sue speranze.
Dott. Fantechi: Ringrazio la dottoressa Cresti per l'interessante intervento e vorrei adesso invitare i coordinatori dei gruppi operativi che si sono svolti durante questi 2 giorni a parlare della loro esperienza.
Gruppi operativi:
I° GRUPPO: Il gruppo ha paragonato la sua esistenza a quella di un seme che ha tutto in potenza per germogliare ma non riesce ad aprirsi e a fiorire, forse manca l'acqua (intesa come forza di volontà) che possa aiutare il fiore a sbocciare. Tutti nel gruppo hanno fatto riferimento alla loro esperienza di bambini e al fatto che spesso c'è, durante la crescita, la necessità di omologarsi ad un determinato modello. Tutto questo è stato vissuto in riferimento alla possibile esperienza di tutoraggio e al fatto che ci troveremo di fronte ad un bambino che ha bisogno del nostro aiuto per riuscire a crescere, ma è difficile aiutare gli altri quando noi stessi non ci sentiamo in grado di affrontare la realtà quotidiana. In relazione a questo è emerso anche l'interesse nei riguardi del ruolo genitoriale, è emersa paura per questo ruolo, paura di soffrire e di far soffrire. Il gruppo però è riuscito a trovare una risposta e qualcuno ha detto che forse è necessario imparare a soffrire, ad accettare la sofferenza in modo che il seme possa, finalmente, germogliare.
II° GRUPPO: Nel nostro gruppo il principale interesse è stato rivolto al ruolo del tutor probabilmente perché erano presenti tutti e quattro i ragazzi che hanno già svolto un'esperienza di tutoraggio quindi la discussione tutti e due i giorni si è centrata particolarmente sui racconti dei ragazzi che sono stati letteralmente subissati di domande. In particolare l'interesse era rivolto al problema del distacco emotivo e di come sia possibile riuscire a non farsi coinvolgere da questa esperienza e soprattutto quanto sia giusto farlo. Il gruppo è arrivato alla conclusione che probabilmente anche se difficile il distacco è necessario anche perché non dimentichiamo che il ruolo del tutor è quello di fornire ai bambini un io-ausiliario che sicuramente non potranno costruire se ad una simbiosi con la madre (per esempio) sostituiscono una simbiosi con il tutor. Il problema poi è soprattutto per il tutor che deve riuscire a controllare anche il fantasma dell'onnipotenza, non credendo di poter risolvere tutto e non cadendo nello sconforto quando le cose non vanno come si vorrebbe. Tutto questo non è possibile se il tutor si con-fonde con il bambino e se lui, per primo, non accetta i suoi limiti.
III° GRUPPO: E' emersa nel gruppo la tematica relativa al rapporto che il tutor deve avere con il bambino e alla difficoltà nel coinvolgimento, soprattutto per la paura di sbagliare e di non riuscire ad andare avanti. E' emersa anche una riflessione su queste due giornate e su quanto sia stato utile avere dei tempi liberi che hanno permesso ai ragazzi di conoscersi meglio e di vivere questa esperienza in un'atmosfera più rilassata quasi che ci si conoscesse da molto tempo. E' stata un'esperienza importante considerata da tutti come utile e formativa; in particolare il gruppo si è trovato d'accordo nel ritenere interessanti le esperienze del pomeriggio di animazione pratica.
IV° GRUPPO: Il gruppo si è interessato del ruolo del tutor e di quanto sia difficile non interpretare non giudicare ma semplicemente ascoltare e fornire la giusta distanza emotiva che permetta al bambino di superare le sue difficoltà. Le discussioni nel gruppo sono state intervallate da silenzi a dimostrazione del disagio provato per il non riuscire a portare avanti un argomento. Tale disagio è stato un po' superato quando il gruppo ha intrapreso un discorso relativo al bisogno di comprendere il ruolo del tutor e alla paura di non essere in grado di relazionarsi in modo adeguato con la famiglia e di non riuscire a mantenersi distaccati e a non prendere posizioni a favore del bambino.
Dott. Fantechi: Ringrazio i relatori dei 4 gruppi e desidererei concludere questo primo corso di Progetto Cucciolo invitando il dottor Candreva, docente dell'Università, a dire due parole.
Dott. Candreva: In questo corso avete fatto anche esperienza di gruppo, la via del gruppo non è una via piana, ma è una via che ha molte difficoltà, indubbiamente coadiuva energia e crea difficoltà a strutturare i propri confini ed elaborare i legami di gruppo. Il gruppo ha una doppia valenza: unisce e separa. Ma sicuramente di questo ve ne siete accorti da soli durante i gruppi operativi che avete fatto in questi giorni. Per quanto riguarda il ruolo del tutor e i problemi che esso implica mi sembra che questa sia una delle tematiche principalmente emerse dai dibattiti e dalle relazioni dei coordinatori dei gruppi. Non dimenticate però che l'aspetto fondamentale, nel lavoro del tutor, è la supervisione che per rivelarsi utile al tutor stesso deve essere attuata come introspezione, al fine di conoscere noi stessi per meglio capire il soggetto che dobbiamo aiutare. Bisogna tenere presente che il tutor non ha una formazione specifica ma basa il suo lavoro sull'intuizione e sull'esperienza quindi la supervisione può servire ad aumentare la capacità di osservazione che rappresenta lo strumento pilota di una buona formazione come futuro psicologo.
Dott. Fantechi: Ringrazio il dott. Candreva e tutti voi per aver partecipato a questo corso, vi invito a partecipare alle future iniziative di Progetto Cucciolo. Auguri a tutti.